mercoledì 22 ottobre 2008

L'attimino fuggente, 4

C'è un argomento che esito a riprendere ma mi opprime, mi angustia, mi irrita e mi fa sentire inadeguata ai tempi. Si tratta delle sciatterie che leggo nella prosa dei giornali, ancora più di quel che sento tra radio e televisione. Ad esempio, è ormai invalso l'uso di interpretare il "mi" dei falsi riflessivi come un "a me" invece del "me" che è in realtà. A me opprime, a me angustia, a me irrita, a me fa sentire inadeguata la sciatteria del linguaggio. Orripilante ma entrato nell'uso senza, credo, che chi l'utilizza si renda assolutamente conto che è scorretto. Altro esempio, l'invenzione di verbi che velocizzano, come l'incredibile, ma esistente perché l'ho letto oggi sulla Repubblica, "tappare" per "fare tappa": quando X tappò a Genova... Il più ridicolo l'ho letto nella lettera di una tizia che si lamentava di non trovare bocchi lavorativi alla sua altezza, sempre su Repubblica: sono una ragazza di trent'anni, laureata in xy, masterizzata a Londra. E mode di cui non si sentiva la necessità, come spiaggiare invece al posto di arenarsi. O l'uso arbitrario di accezioni dovute, sembrerebbe, a un malinteso iniziale che poi si fa regola: paventare nel senso di far paura invece di temere, prevedere, molto di moda in questo periodo sui giornali, o rampollo inteso come giovane di famiglia importante. Per non parlare dei verbi intransitivi usati transitivamente, una vera epidemia.
Smetto qui perché sento che mi sta già venendo l'orticaria, e poi so di non fare bella figura a mettere in piazza le mie fisse. Ma lo farò ancora. Mi propongo sempre di tenere una lista degli attimini fuggenti in cui inciampo, poi opero una specie di rimozione che mi salva sul momento ma non è sana.
Resta il fatto che, non ho timore di ripetermi, a ognuno dei fare sesso che ormai costellano qualsiasi doppiaggio cinematografico e televisivo come le margherite costellano i prati in primavera, e con meno frequenza gli articoli giornalistici, i miei capelli imbiancano e i miei nervi si logorano e i miei denti si stringono, l'umore mi si abbassa. Al momento è il mio arcinemico linguistico.

domenica 19 ottobre 2008

Ma quante scritture ci sono?

Periodo di grandissima pigrizia, impotenza a scrivere, piccoli impegni che distraggono e tolgono energia. Pensare che ne avrei avute di cose su cui riflettere. A cominciare dall'incontro con Silvia Treves e Alessandro Defilippi avvenuto nell'ambito di "Portici di carta", che partendo dal mio libro Lei coltiva fiori bianchi, creatura della CS_libri, si è trasformata in una piacevolissima conversazione su temi che stanno a cuore a tutti e tre in quanto scriventi e leggenti. Ma sono passati venti giorni, è un po' tardi. O le riflessioni suscitate dal dialogo tra Francesco Gnerre e Andrea Demarchi avvenuto nella libreria Legolibri di Torino e intitolato "Omoculture. L'omosessualità tra cinema, musica e psicologia. L'eroe negato, la rappresentazione dell'omosessuale nella cultura contemporanea" in cui l'interessante excursus sulla figura dell'eroe omosessuale riguardava in realtà l'autorappresentazione e non ha toccato neanche un'autrice né un'eroina omosessuali, lasciandomi il dubbio che nel titolo, malgrado il plurale, mancasse l'aggettivo "maschili". Così anche l'inevitabile interrogativo iniziale, "esiste una letteratura omosessuale?" mi è parso mal posto se riguarda solo una parte della questione. E ripensando anche all'interessante scambio di opinioni con Alessandro Defilippi e Massimo Citi sulla "scrittura femminile" in questo stesso blog, nei commenti al post Dove nascono le storie del 15 settembre, mi è venuto un brivido di solidale comprensione per le scrittrici lesbiche, che dovranno interrogarsi ogni volta che si mettono al lavoro: esiste quello che scrivo? esisto io stessa, e sto davvero scrivendo? Rifletterò ancora su questo tema, anche perché il 6 novembre sera, all'Extreme di via san Massimo, presenterò il romanzo di Sarah Sajetti, Volevo solo un biglietto del tram, un giallo frizzante ambientato nella Milano lesbica. Ma non c'è verso, la testa mi funziona poco, e per il momento non ho altro che domande.

sabato 4 ottobre 2008

Ballata lusitana, di Camilo Castelo Branco

Quando vogliamo riconciliarci con il nostro mondo e l'oggi che non ci piace, niente di meglio che fare confronti con il passato per poter dire: in fondo l'ho scampata bella, avrebbe potuto andarmi molto peggio. Soprattutto "noi ragazze" abbiamo mille motivi per rallegrarci di essere nate hic et nunc. Questi sono i pensieri che mi ha suscitato la lettura di Ballata lusitana di Camilo Castelo Branco, pubblicato nel 2008 dalla casa editrice Marlin di Cava de' Tirreni, con la traduzione di Célia Pereira da Silva. La vicenda è tutto sommato semplice: l'io narrante, senza nome, in un momento di particolare infelicità si trova a passare in un villaggio dove incontra Afonso de Teiva, un vecchio compagno di università, irriconoscibile nella sua condizione di gentiluomo di campagna, sposato, con otto figli e il nono in arrivo. Dopo avere trascorso insieme alcuni giorni Afonso gli racconta come, da ricco e brillante giovanotto, si è trasformato in uomo modesto ma felice. E manco a dirlo, la rovina e la salvezza gli sono entrambe venute da una donna. La prima è una femme fatale anche un po' dark lady, che lo trascina nei gorghi dell'adulterio e della rovina finanziaria, la seconda è la santa donna che lo ama in silenzio e poi lo sposa restituendogli la vita. Non a caso il titolo originale di questo romanzo è Amor de salvacao (la grafia in portoghese richiede una c con la cediglia e una tilde sull'ultima a, ma non so dove andarle a pescare), amor di salvezza, e fa seguito a Amor de perdicao (vedi sopra), amor di perdizione, anche se all'amore santificato dedica poche pagine rispetto a quelle in cui racconta l'abiezione e il degrado di Afonso per colpa della perfida (?) Palmira. La quale, a dire il vero, ha una vita piuttosto complicata, orfana nell'infanzia, il tutore la chiude in convento e la tira fuori solo per farle sposare il proprio figlio rozzo e ridicolo, naturalmente per appropriarsi del suo patrimonio. Ma non una parola di questo, nessuna compassione per la sua infelice adolescenza reclusa, nessuna scusante per i suoi tentativi di essere meno infelice. I suoi peccati sono troppi, e tra questi ci sono anche il fatto che è sportiva (ama cavalcare) e vuole studiare (acquista un mucchio di libri senza consultare il marito e li legge persino, facendosi una cultura!). Insomma una donnaccia. Per fortuna Afonso è amato dalla cugina Mafalda che lo va a riacciuffare per la collottola quando tocca il fondo, lo sposa e gli fa quasi nove figli. Anche di lei non sappiamo se è soddisfatta di come sono andate le cose, o se magari, nelle ore di insonnia, si prende a schiaffi per essersi rovinata con le proprie mani.
Il romanzo è divertente perché è uno spaccato della società portoghese dell'ottocento, sia quella di provincia che della brillante Lisbona. Inoltre, magrado l'apparente moralismo, è facile intuire che sotto sotto al buon Camilo (come viene chiamato affettuosamente dai suoi compatrioti) la seconda vita di Afonso fa un po' senso, e non gli invidia Mafalda, mentre Palmira chi sa, almeno era bella e non partoriva a ripetizione...
Camilo Castelo Branco (1895-1890) era uno di quelli che a buon conto possono dire la mia vita è un romanzo. Figlio illegittimo e subito orfano, fu allevato nel nord del Portogallo da tre zie zitelle, studiò in seminario poi all'università di Coimbra, sempre incerto tra farsi prete e dedicarsi alla letteratura. Prese gli ordini minori poi divenne scrittore. Fu arrestato due volte, la prima per avere disseppellito la giovanissima moglie e la seconda per avere commesso adulterio con una donna sposata. Scrisse 260 libri tra romanzi, opere teatrali e saggi, divenne famosissimo, fu nominato visconte, poi dovette smettere di scrivere per la cattiva salute, cadde in miseria, divenne cieco a causa della sifilide, infine si suicidò con un colpo di revolver. E' esponente del romanticismo e fu a lungo in competizione con Eca de Queiroz, più giovane di lui di vent'anni ma contemporaneo come scrittore e alfiere del realismo. Le sue opere sono spesso illuminate dal sarcasmo e dall'umorismo che ne attenuano il moralismo, e la sua lingua è la più ricca e variegata della letteratura ottocentesca lusitana. In Italia non è molto tradotto per cui alla casa editrice Marlin va il merito di una proposta rara e molto interessante.