domenica 20 marzo 2011

Ma mi faccia il piacere!

Nel momento caldo del bunga bunga, escort & affini non sono riuscita a scrivere niente per mancanza di tempo e anche perché tutto quel gran pontificare a vuoto mi ha nauseata. Non che pensi di essere esente dal rischio pontificale, anzi. Forse mi piace farlo in esclusiva. Comunque, in sostanza 1) il tizio di cui tutti parliamo da vent'anni faccia quello che vuole nella sua tavernetta da bauscia (minorenni a parte), 2) però non pretenda anche di governarmi mentre lo fa. E basta, non ho altro da dire sulla sostanza. Però non capisco perché nel mondo del liberismo sfrenato, della monetizzazione assurta a religione, in cui un'opera d'arte viene valutata in numero di biglietti staccati, volume del merchandising e ritorno economico sui ristoranti del circondario, l'unico tabù rimasto, l'unica cosa che non si deve vendere è proprio quella lì, quella per cui la creatività lessicale della nostra bella lingua si è scatenata, l'origine del mondo di Courbet, insomma avete capito. Eppure le allegre ragazze che ne fanno commercio ne hanno anche l'assoluta proprietà, perché non dovrebbero farne l'uso che vogliono? Perché solo quella va concessa in beneficenza, per ammore (e qui ci sarebbe da aprire una parentesi grossa come una casa sul fatto che dall'amore non ci aspetti nessun vantaggio...), pena lo stigma morale e sociale, l'autorizzazione a tutti (ma proprio tutti) di agitare il ditino ammonitore, il così non si fa? E l'esimio Francesco Merlo su la Repubblica che le chiama impunemente le lupe di Arcore? Si può vendere lo sperma, svendere il cervello, affittare l'utero, baciare l'anello ai dittatori per scopi commerciali (e bombardarli per scopi umanitari), sfruttare gli immigrati, inventarsi qualsiasi cosa per indurre il prossimo a consumare, ecc ecc. Ma quello proprio no. E' il limite, l'ultimo paletto che la moralità integerrima di una società in pieno svacco non intende spostare. Qualche motivo ci sarà, ma mi sfugge completamente.
E poi: voglio varare una petizione (magari al padreterno che ha le sue responsabilità) perché chiunque scrive controlli i suoi automatismi, per evitare di dovere ancora e sempre leggere perle come queste: Giovanni Valentini, la Repubblica 22/1/2011, Se il biscione diventa un drago (si parla ovviamente di Ruby Rubacuori & c) "Ne abbiamo già abbastanza per dire che tutta questa vicenda è un'offesa alla donna, alla figura femminile e quindi a tutte le donne. Di centrodestra e di centrosinistra. Cattoliche e laiche. Madri, mogli, sorelle, fidanzate e compagne". Il grassetto è mio. E anche: Antonella Barina, Il venerdì di Repubblica, 11/3/2011, Arriva il quadro più scandaloso dell'umanità, sull'esposizione al Mart di Rovereto del quadro "L'origine del mondo" di Gustave Courbet: "Una tela senza precedenti nella storia dell'arte, che [...] diventa il sesso di tutte le donne – madri, sorelle, mogli, amanti, figlie – il punto di partenza di ogni vita". Di nuovo il grassetto è mio. Ma fatemi il piacere! Il santissimo piacere di connettere per un istante il cervello e vergognarvi! So che l'intenzione è buona, ma possiamo smetterla di definire le donne in base alla loro collocazione nei confronti di un uomo? Perché altrimenti non esistono, non sappiamo come definirle, dove piazzarle? E forse neanche ce l'hanno, l'origine del mondo?
P.S. in margine all'articolo di Giovannini, di cui ho apprezzato il sincero sdegno e il solidale attestato di stima per le donne. Io non mi sento né mi sono sentita offesa da tutta la vicenda del bunga bunga. Perché dovrebbero offendermi questi traffici in cui non c'entro niente, e non mi hanno portato via niente? Fatti loro. Io della mia dignità ho una considerazione molto più alta e una sicurezza molto più solida di quanto possa essere sgualcito dai vecchi sporcaccioni e le loro giovani complici. E poi, diciamolo pure, se qualcuno deve eventualmente cominciare a preoccuparsi della sua dignità e della sua immagine, sono gli uomini, e non certo le donne.

lunedì 14 marzo 2011

Silvia Avallone, Acciaio


SILVIA AVALLONE, ACCIAIO, Rizzoli
La prima cosa che colpisce nel romanzo della bella e simpatica Silvia Avallone è la sua densità. C’è veramente di tutto in queste pagine: l’adolescenza e il declino della cultura operaia, la scoperta della sessualità e il degrado della famiglia, la fabbrica e la discoteca, i ricchi e i poveri, lo sballo e le morti bianche, persino l’11 settembre 2001, a dire il vero presentato con grande originalità. L’ansia di dire tutto costringe l’autrice a strizzare la materia narrativa perché entri nella vicenda, facendo fare salti ai personaggi e al loro sviluppo a scapito della verosimiglianza (vedi la neolaureata Elena che diventa responsabile del personale e decide i licenziamenti!), ma la perdoniamo volentieri dal momento che la vividezza della cornice prende il sopravvento sulla storia un po’ tirata via e esagerata. Rimane l’impressione che dietro a Acciaio ci sia un partito preso, la volontà di rappresentare una vicenda emblematica più che la libertà di narrare la vita com’è.
Via Stalingrado si trova in un quartiere di Piombino costruito per gli operai dell’acciaieria Lucchini, che negli anni settanta dava lavoro a ventimila persone ora ridotte a un decimo. L’acciaieria, il grande altoforno AFO 4 che incombe sulla fabbrica e sputa fuoco ininterrottamente, le spiagge deturpate dagli scarti ferrosi, la vita grama e i turni di lavoro sono la realtà: l’isola d’Elba che occhieggia all’orizzonte, i traghetti per raggiungerla, le file di milanesi e di tedeschi che aspettano sotto il sole di imbarcarsi sono il sogno, vicino ma irraggiungibile. Lì vivono Francesca e Anna, due quasi quattordicenni bellissime e più che consapevoli del proprio fascino e del potere che gliene deriva. I genitori di Francesca è meglio perderli che trovarli, lui picchia moglie e figlia (non ho capito se è anche incestuoso o solo violento), lei è una donna ormai spenta, totalmente inerte malgrado abbia poco più di trent’anni. Anna ha una madre politicizzata, attiva nel sindacato, incapace di liberarsi definitivamente del marito, piccolo delinquente bugiardo e sfuggente ma fedele. C’è anche Alessio, il fratello operaio, sballone e un po’ ladro, estraneo a qualsiasi coscienza sociale, interessato solo a farsi e bere ma capace di un amore che resiste anche alla realtà del rifiuto. Intorno molti personaggi minori, ragazze che ronzano attorno a Alessio come api, amici delle due adolescenti, adulti mai saggi, in un panorama di degrado davvero inquietante e privo di speranza. La vicenda si sviluppa veloce rincorrendo Anna e Francesca, amiche per la pelle di quell’amicizia esclusiva che non può sopravvivere alla crescita. C’è spazio anche per la tragedia che arriva improvvisa e cambia le carte in tavola, come l’amore. Forse sono proprio le due amiche l’elemento meno verosimile del romanzo, tra i molti che non si può fare a meno di notare. C’è un eccesso di sicurezza nella loro adolescenza, nella capacità di esercitare il potere della bellezza, e anche tutto sommato nel modo disinvolto, quasi indifferente con cui Anna vive l’amore con Mattia, un ragazzo tanto più grande di lei. Comunque alla fine un piccolo elemento di speranza deriva proprio dalla loro capacità di riannodare l’amicizia dopo un distacco che pareva incolmabile.
Un romanzo in cui ho fatto un po’ di fatica a entrare, soprattutto a causa di una scrittura non sempre gradevole né convincente. Però poi rimane dentro, quella Piombino divisa tra aria di mare e fumi d’altoforno è difficile da dimenticare. C’è sicuramente una forza in Silvia Avallone, un piglio deciso che forse non ha ancora trovato il suo equilibrio ma rende interessante la sua opera prima.

Amare i propri vizi


AA VV, FREEDOM, prefaz. di Desmond Tutu, trad. dall’inglese di Federica Ressi, Mondadori
AA VV, L’UOMO CHE SPOSÒ UN ALBERO, trad. dall’inglese di Francesca Maioli e Elena Orlandi, Mondadori
Amo i miei vizi e finché riesco li coltivo, consapevole che possono fare male. Questo è valido anche per la passione per le antologie, e un po’ mi consola l’idea che non devo essere sola in questa dipendenza visto che continuano a pubblicarne malgrado sia notorio che i racconti tirano poco. Comunque, a volte il trip è buono altre pessimo, e qui ne porto due esempi.
Pessimo è L’uomo che sposò un albero, traduzione di The best of McSweeey’s, racconti apparsi sul Timothy McSweeney's Quarterly Concern, la rivista fondata da Dave Eggers. A meno che non siate interessati a conoscere gli ultimi snobismi letterari dei giovani scrittori statunitensi, odorosi di scuole di scrittura creativa, inutili e pieni di presunzione. Storie noiosissime scritte benissimo. Qualche esempio: Alison Smith, Lo specialista, una donna con problemi ginecologici risucchia al suo interno gli specialisti che la visitano (forse l’autrice ha visto Parla con lei di Pedro Almodóvar e non l’ha ben digerito), tirando avanti l’ideuzza per più di venti pagine; Tony D’Souza, L’uomo che sposò un albero, non è una metafora, narra proprio di un tizio che si invaghisce di un albero, lo sposa e noi seguiamo la vicenda non travolgente attraverso i commenti degli abitanti del villaggio, il postino, lo sceriffo e via via altre voci sempre più strampalate fino a arrivare alla terra, alla trota, ai pali telefonici, alla morte. Anzi forse è proprio una metafora ma io non l’ho capita. E sapete una cosa? Non me ne frega niente. Steven Millhauser, La torre, gli abitanti di una città costruiscono una torre che arriva a bucare il pavimento del paradiso (nuova questa). David Means, L’uomo di Elyria, autobiografia di una mummia di palude. Qualsiasi cosa sia. Degli altri racconti non dico altro tanto avete capito il genere. Se è quello che cercate, questa antologia ve ne dà a iosa. Se no, passate alla prossima, la buona. Freedom rappresenta il tipo di operazione che a prima vista fa un po’ venire i brividi: il sottotitolo, Trentasei grandi scrittori celebrano la dichiarazione universale dei diritti umani, non promette bene, come il fatto che i diritti d’autore siano devoluti a Amnesty International. Invece, al di là del collegamento tra l’articolo scelto e il senso del racconto, a funzionare è proprio la grande varietà dei nomi e degli approcci al tema. Ci sono autori veramente famosi e altri che non ho mai sentito, ma non vuol dire. Per esempio, l’unico nome italiano, Gabriella Ambrosio, che ha pubblicato nel 2004 il romanzo Prima di lasciarsi (Nutrimenti), premiatissimo e tradottissimo, mi sfuggiva del tutto, ma il suo racconto Stecco, sugli effetti della tortura, è notevole. Forse deludono un po’ Banana Yoshimoto e il suo patetico Un bambino speciale, Paulo Coelho e Prigioniero della quiete, sull’ospedale psichiatrico, soprattutto per la scrittura corriva. Gli altri li cito alla rinfusa, sono troppi quelli da ricordare. Ali Smith, Il messaggero, ci parla di coloro che rimangono intrappolati tra Africa e Europa, nel tentativo sempre frustrato e sempre ripetuto di attraversare un pezzo di mare che li porterà (forse) alla salvezza. Milton Hatoun, Straziato, narra delle illusioni rivoluzionarie degli studenti messicani nel 1969, e della realtà della repressione mentre Héctor Aguilar Camín, Il compagno Vadillo, riesuma con potenza e grande passione una vicenda dolente, l’illusione sovietica vissuta dai giovani comunisti messicani negli anni trenta. Olja Knezevic con L’aula ci porta in mezzo alle dinamiche che stavano sotto alla delazione nella Jugoslavia comunista, Liana Badr, La marcia dei dinosauri, rappresenta la quotidianità di un villaggio palestinese occupato da carri armati e cecchini, Alice Pung, Il capanno, descrive con vivace partecipazione la vita di sua madre, cambogiana fuggita dal regime di Pol Pot, creatrice di gioielli d’oro per pochi dollari e fuori dalla legge nella ricca Australia di cui lei conosce solo la miseria e gli altri espatriati del Sud Est asiatico. Guerrieri del Cielo, di Mahmoud Saeed, colpisce al cuore con la vicenda di un’utopia di riscatto nell’Iraq corrotto e cosparso di cadaveri, dove possono convivere nobili ideali e arcaiche, ignobili violenze. Bello e triste è Un incidente all’ora di pranzo, tra la farsa e la tragedia nello Zimbabwe, terribile e davvero difficile da dimenticare La luna su di lui di Yann Martel, mentre Nadine Gordimer si cala nei panni della donna di un prigioniero politico in Amnistia, Joyce Carol Oates parla di un bambino difficile in Tetano e Walter Mosley, Il processo, suggerisce la possibilità di una giustizia più giusta che nasca direttamente dai brutti, sporchi e cattivi di un ghetto nero negli Stati Uniti. Insomma potrei andare avanti e citare quasi tutti, ma mi limito al mio preferito, Un figlio di internet di Xaiolu Guo, storia terribile che nella sua semplicità illustra in maniera perfetta le contraddizioni tra modernismo e arretratezza nella Cina di oggi. In coda, oltre ai cenni biografici sugli autori, il testo della Dichiarazione universale dei diritti umani.