lunedì 27 febbraio 2012

La necessità della passione

 Lei coltiva fiori bianchi: intervista a Consolata Lanza

A cura di Silvia Treves


Lei coltiva fiori bianchi è stato definito da Consolata un libro «sentimentale», e io concordo perché esplora in profondità i nostri sentimenti, le aspettative più o meno sensate, le speranze e il nostro diritto alla felicità. Più che un tema, forse, è un interrogativo: ognuno di noi è un intero o la metà di una coppia? Ed è più saggio sopportare il compromesso di una vita a due per averne anche tutte le gioie, oppure accettare la solitudine per non tradire le nostre aspettative di perfezione?
Ma Lei coltiva fiori bianchi esplora anche un altro tema, non meno importante: quello del tempo che passa e della sensazione, incomprensibile a chi è giovane, che ognuno di noi, pur continuando a imparare, a cambiare, a trasformarsi, resti sempre quello di un tempo, di quando era «giovane»: medesimi i desideri, che forse hanno cambiato oggetto ma non intensità, medesime le speranze, medesima l’aspirazione – sopita ma non dimenticata – alla felicità. Dentro un corpo diverso, più fragile, più logoro, che piano piano giunge alla fine, restiamo pur sempre quelli di «allora».
Ed è proprio in questa frattura fra tempo del cuore e tempo del corpo, fra il tempo del nostro io e il tempo reale, che trascorre e si definisce la nostra vita e che noi impariamo ad accettare gli altri e a sopportare, ad amare perfino, i nostri limiti.
Il libro di Consolata è un trittico ricco e variegato; il primo racconto è modulato dai confronti: la giovane Bea e Gloria dalla già lunga vita, il giardino di Gloria, lussureggiante a giugno e umido e severo in ottobre, addormentato, sul punto di giungere alla fine; il secondo si scioglie nello straniamento, in un vuoto vertiginoso e rasserenante, nel sogno di vite inventate che avrebbero potuto essere vere; il terzo si affaccia sul timore di concedersi alla felicità, di perdere tutto e risvegliarsi soli.


Il dialogo che segue è un estratto di quanto è stato detto durante  la presentazione del libro organizzata nella libreria della CS_Libri, una serata piacevole arricchita da letture di brani del romanzo da parte di Francesca Maria Rizzotti.  

Fiori di catalpa
S.T. Vorrei cominciare dal giardino di Gloria, dove si volge il primo incontro fra le due protagoniste. Un giardino pieno di fiori solo e completamente bianchi. Come pensa Bea, ad un certo punto, la follia botanica di  Gloria appare  piena di metodo… Ti ho invidiato moltissimo per questo brano! Io l’avrei trasformato in un noioso trattato di botanica, tu sei riuscita a farne una descrizione piena di odori, colori, molto sensuale. Al di là dei personaggi di contorno, a volte disegnati rapidamente – come nel caso degli occasionali incontri di viaggio di Gloria – altre volte più dettagliati, come il marito di Bea, due sono i personaggi fondamentali: un’anziana e una ragazza. Il loro è un incontro piuttosto improbabile che si avvera per la testardaggine della giovane Bea e per la curiosità, forse identificazione, di Gloria. Sono personaggi molto diversi, quasi speculari. Uno dei tanti doppi del libro, come il giardino nelle due stagioni, il giardino bianco e quello rosso. Gloria «recita» la parte dell’amante che non vuole diventare una moglie normale, Bea quella contraria, tutta presa dal suo sogno di normalità. È una lettura sbagliata?

Fiori di tiglio
C. L. Sai, io più che tanto non so interrogarmi sulle azioni dei personaggi. Loro fanno così perché 1) glielo faccio fare io e 2) non possono fare altrimenti.
Però devo dire che non ho mai pensato a Gloria come una che recita: Gloria è essenzialmente se stessa, e nell’esserlo pienamente nelle circostanze diverse della sua vita mia ha interessato come personaggio. In questi racconti ho cercato di rappresentare due personaggio che hanno una visione diversissima dell’amore e di come vogliono condurre la propria vita, e ci riescono ognuna a modo suo. Nel mio modo di vedere il nucleo è proprio questo confronto fra le due donne.

S.T. Dicendo che Gloria «recita», che è un personaggio che mette in scena la propria vita, non intendo dire che finge ma che si adopera in maniera lucida e consapevole per rispettare un programma di vita: rendere la vita e l’amore un evento sempre eccezionale. La sua è una scelta compiuta ogni giorno, ogni volta. Non vuole essere la moglie quotidiana a fianco della quale ci si sveglia, ma la donna sempre misteriosa, indipendente.

Frangipani
C. L.  Il risultato è questo, la scelta è vivere la passione invece della quotidianità, del concreto. Fare di tutto perché un amore resti passione e non diventi mai… amore, forse, perché in genere amore e passione sono considerati termini contrapposti. Gloria, il personaggio più anziano, ha fatto questa scelta di vita drastica. Come coltiva un giardino straordinario contemporaneamente coltiva questa passione, l’accudisce perché rimanga tale; la sua è una scelta, non una necessità obbligata. Per contrasto Bea, molto più giovane, va nella direzione opposta, non le interessa la passione che comporta il rischio e un continuo lavoro. In realtà anche la scelta di vita di Bea comporta un lavoro continuo, ma di tipo differente. Per Bea la passione è un rischio tremendo, vivere una vita di passione per lei significa non avere nulla a cui radicarsi. Lei vuole un uomo con cui vivere, una famiglia… non per rinchiudervisi, perché è un personaggio con gli occhi ben aperti sulla realtà… però Bea vuole questo genere di amore come prerequisito.

S.T. Però in un certo senso Bea ha timore del cambiamento.

C.L. Sì, del cambiamento ha una paura folle, ma soprattutto non ne sente la necessità. A me Bea non sembra una che si nega alle sorprese. Anche lei, come Gloria, ha preso delle decisioni che per il momento hanno prodotto la sua felicità, o serenità, e teme le minacce dall’esterno. Però io non vedo Bea come un personaggio che vuole tenere tutto sotto controllo, piuttosto come una persona che in un determinato momento ha realizzato ciò che voleva nella propria vita e quindi ha questo timore, ansia, idea che possa sparire da un momento all’altro. Come dicevi tu all’inizio, il tempo trasforma tutto, e un momento di perfezione totale non è detto che duri. Non è un sentimento che abbiamo tutti? Non sappiamo tutti che, malgrado i nostri sforzi, ci può sempre essere la famosa tegola che ci casca sulla testa, il terremoto, l’attentato terroristico? È una cosa che io penso, e Bea non ha bisogno di svegliarsi, ha gli occhi ben aperti, anzi si guarda attorno e nota persone e cose. Solo, sa che ha molto da perdere.

S.T. Io trovo che il timore di Bea per la passione, per l’imprevisto, per una vita eccezionale, coltivati invece da Gloria in maniera un po’ maniacale, emerga con chiarezza nel terzo racconto, nel quale si verifica una situazione straordinaria, una perturbazione: la sparizione della vicina di casa, di un frammento del suo universo. Sparendo, la donna, le provoca una grossissima insicurezza, alla quale Bea risponde in maniera interessante da scoprire. Tu pensi che il suo bisogno di radicarsi e la sua reazione alla sparizione di quel tassello nel mosaico siano legate?

C.L. La sparizione della vicina non le crea insicurezza, almeno rispetto alla sua vita, ciò che la agita è scoprire come sia possibile perdere la propria vita. Qui devo fare una nota personale. L’episodio narrativo della sparizione della vicina nasce da un episodio reale, la sparizione, proprio a Torino, di una donna quarantenne; alcuni dei presenti forse lo ricorderanno. Io, mia sorella e molte amiche abbiamo vissuto quel caso con molta partecipazione. Ovviamente non ha minato la nostra sicurezza, non ha colpito direttamente la nostra vita, ma l’abbiamo seguito con passione. Io guardo sempre Chi l’ha visto, lo dico senza imbarazzo. Mi inquieta e mi affascina la possibilità di potere sparire e cancellare la propria vita da un momento all’altro. Mi affascina perché quando è voluta mi sembra una cosa a suo modo bellissima. Quello della sparizione è un tema che ha ispirato libri bellissimi, come Bambini nel tempo di mcEwan e un romanzo di Gilmore che recensirò a breve. La sparizione è un evento conturbante e affascinante, nel bene e nel male. Non credo di poter entrare più che tanto nella psicologia dei miei personaggi, questo è un vecchio discorso tra noi, perché loro possono fare soltanto ciò che io gli permetto, quindi… Però la vedo così, Bea prova paura ma anche fascino per la cancellazione di questa persona la cui vita l’ha semplicemente sfiorata, la vedeva in tram, ne conosceva il viso, e poi è sparita. Ci sono anche altre vicende simili che vede accadere attorno a sé. Io non l’ho intesa come un timore, ma ciò che il lettore percepisce in realtà sfugge al mio controllo.

S.T. Mi piace sempre molto discutere con te, scoprire che a volte cogliamo sfumature simili e a volte differenti. Prima di questa sera ci siamo scambiate delle idee su Lei coltiva fiori bianchi… Spesso collimavano ma c’erano alcune sfumature che io vedevo e tu non vedevi in un certo personaggio, e viceversa. Penso che questa diversità di vedute sia il sintomo di un libro vivo, vitale, capace di suscitare sensazioni differenti, di far dire ai vari lettori «io la vedo così» e «io invece ci vedo anche questo»… Mi sembra una dimostrazione della ricchezza del testo, un’ambiguità feconda.

C.L. Prendo questa tua versione benevola come un complimento, in realtà può darsi benissimo che l’autore non riesca a rendere un personaggio…

basilica del Bom Jesus, Goa
S.T. Leggendo alcuni libri accade di pensarlo. Ma in questo caso è davvero un sintomo di ricchezza. Tornando alla fascinazione esercitata dalla possibilità di sparire… Questa medesima fascinazione io l’avverto nel secondo episodio, nel quale Gloria, in vacanza a Goa, sembra non volere contatti reali con gli altri. Sembra pensare:  «Io sono qui e vi vedo vivere, voi vedete vivere me. Ma c’è distanza tra noi e non la voglio colmare». Di  fronte alle varie persone che incontra e che vogliono scambiare con lei frammenti della propria vita e indirizzi, Gloria ogni volta si reinventa, dandosi nomi e vite differenti. Talvolta ricamandoci anche, facendone una versione complessa. È un’altra modulazione del tema della sparizione volontaria?

C.T. Devo ammettere che in questo caso ho veramente prestato a un personaggio una cosa mia che mi ha sempre esaltato tantissimo. Viaggiare da soli come in questo caso Gloria e non essere nessuno. Quando sei da solo in giro, sei solo tu con il tuo passaporto e un po’ di soldi, una carta di credito. E basta. Ti presenti alle persone che incontri con la tua faccia, sei senza storia, senza background, gli altri non possono che accettarti o rifiutarti per il tuo vero essere, per ciò che sei. Questo mi è sempre piaciuto da morire e ho praticato a lungo questa possibilità in passato. Ora non ho più tanta voglia di viaggiare da sola, ma in passato sì. È l’esatto opposto del «Lei non sa chi sono io», è invece: «lei per fortuna proprio non sa chi sono io». Ho prestato questo a Gloria e lei, più che inventarsi delle vite, si presenta semplicemente con la propria vera interfaccia. Dà una forza enorme presentarsi e vivere in questo modo, stabilire rapporti, crearsi dei rapporti.

S.T. Spendendo solo te stessa…

C: Spendendo solo te stessa, però scoprendo che non c’è bisogno di altro.

S.T. Mi è piaciuto moltissimo il brano nel quale Gloria incontra la ragazza francese. Un esempio, davvero liberatorio, della piccola malevolenza che tu nutri verso alcuni personaggi. Ora vorrei farti una domanda che probabilmente non ti piacerà. Te l’hanno già posta anni fa, durante una  presentazione di un altro tuo romanzo, credo Est di Cipango. Ti avevano chiesto quale avrebbe potuto essere  il futuro di un certo personaggio. Tu allora rispondesti, e lo comprendo perfettamente: «Non lo so. Ho visto soltanto fino a quel certo punto, e fino lì ho scritto. Oltre no, perché oltre non ho visto». Te la ripropongo perché sono curiosa… Vedi, a me sembra di  poter intravedere il futuro di Gloria,  potrebbe fare altri viaggi, o magari no, potrebbe non desiderare  più di vedere altra gente o forse incontrare alcuni amici… Invece Bea mi incuriosisce perché mi è difficile immaginarla «dopo». Mi piacerebbe leggere di Bea dopo dieci anni.

Pittosporo
C.L. Ho due risposte, oltre quella scontata. Tu non puoi immaginarti il futuro di Gloria, perché il suo futuro deriva da un passato che è completamente diverso dal tuo e quindi… Mentre invece mi sembra che il tuo presente, almeno come struttura, sia più simile a quello di Bea…
In ogni caso, la sua ricerca, che è quella della maggioranza degli essere umani, non mi pare mediocre. Non è volere una famiglia che è mediocre, ma tutto quello che ci sta attorno: la chiusura agli altri interessi, la miopia, il rinchiudersi egoistico, che mi pare il personaggio non pratichi. Per passare invece alla domanda specifica… Io dico sempre che le mie storie finiscono perché io più in là non vedo, non arrivo. Giunte a un punto morto finiscono lì. Credo che accada a chiunque scrive storie. In questo caso, il libro stesso è una risposta. C’è un primo racconto in cui due personaggi s’incontrano per la contingenza dell’intervista e fanno amicizia. Si specchiano uno nell’altro e si danno delle risposte. Gli altri due racconti sono una risposta a quell’esigenza: che cosa accade all’una e all’altra, nel secondo racconto si segue Gloria e nel terzo Bea. Come vedi, quando ne sento la necessità vado a vedere oltre.

S.T. Io ho definito una sorta di trittico questa forma narrativa che non è propriamente un romanzo. Altre volte hai utilizzato questa struttura – tre racconti, tre situazioni – ad esempio ne Il gioco della masca, in D’amore e no, in  La lametta nel miele

C.L. In verità io ho pubblicato alcuni libri formati da tre racconti per puri motivi editoriali. Mi chiedevano: «Hai tre racconti, così facciamo un libro…». I libri che citavi sono antologie, raccolte, ospitano tre racconti per motivi di lunghezza, potrebbero essere quattro o cinque, se fossero più brevi. I racconti possono avere rimandi interni, ma non hanno niente in comune, come narrazione. Invece ha la medesima struttura di Lei coltiva fiori bianchi proprio Est di Cipango, dove nel primo racconto si parla di un personaggio, nel secondo di un altro che ha incrociato la vita del primo… Anche Ragazza brutta, ragazza bella è simile, anche se i racconti sono più numerosi. I racconti di questi libri continuano a esplorare la vita di personaggi che non si esauriscono in un racconto solo. È una forma che mi piace moltissimo e che penso di riprendere prima o poi, anche se gli ultimi due romanzi (inediti) che ho scritto sono del tutto diversi come struttura. Mi permette di scrivere racconti, che è la forma narrativa che preferisco, e di riprendere i personaggi se mi viene voglia di pensarci ancora. Così non mi stufo come mi può succedere scrivendo un romanzo.

S.T. Parliamo dei luoghi. Uno dei brani che preferisco appartiene al terzo racconto ed è il momento in cui Bea attraversa il Ponte della Gran Madre; non soltanto le tue parole trasportano il lettore esattamente dov’è Bea, ma esprimono sensazioni che provo spesso, andando a lavorare a piedi. Questa Torino, che scivola discreta fra i pensieri mentre la attraversiamo, è forse la meno conosciuta da chi viene da fuori e la più amata da chi vive qui. Anche in altre tue opere, mostri un legame molto forte con la città e con la provincia, la Bolzaretto dell’anima, diciamo. In Lei coltiva fiori bianchi, Torino e i dintorni sono una presenza continua ma rarefatta: la città traspare poco nel primo racconto, nel secondo è come reinventata da Gloria, è un luogo nel quale continua a collocare la propria casa e la propria vita; ha invece una parte importante e molto d’atmosfera nel terzo. Che cos’è Torino per te?

C.L. È l’ambiente che conosco meglio, che posso descrivere meglio. Io scrivo sempre di cose che conosco e posti che ho visto perché altrimenti non riesco a ricrearne l’atmosfera che per me è fondamentale. Poi mi documento anche, ma solo a cose fatte, per controllare di non aver scritto cazzate.

Torino, Ponte della Gran Madre sul Po
S.T. Odori, sapori, colori, suoni, sensazioni tattili… nei tuoi racconti scivolano da una pagina all’altra, avvolgono il lettore, gli entrano dentro. A leggerti sembra che sia tanto facile, scrivere così. Che tutto, nella tua narrativa, nasca dalle sensazioni. Cioè che tu prima annusi la scena e i personaggi, li esplori con i sensi. È così?

C.L.  Sì, è verissimo. Per questo non posso scrivere di posti che non conosco bene, non parliamo di quelli che non ho mai visto. Molto sovente parto da un odore, un colore o una sensazione da cui nasce un teatro temporaneo in cui poi si inseriscono i personaggi e infine le azioni. In questo caso non c’è bisogno di dire che l’origine è il giardino di Gloria, ma piuttosto dall’esterno che dall’interno, quelle macchie di vegetazione attorno alle ville antiche che si vedono certe volte in pianura, circondate da un muro basso a righe orizzontali. Anche per la scena iniziale della Y10 che corre la mattina presto… la strada che da Strambino va verso Masino ha avuto molto peso.

S.T. Un’ultima domanda: mettendo da parte le tue opere dichiaratamente di genere, come ad esempio i racconti Alessandro il grande vive e regna (Alia Italia - CS-libri) o Monemvasia (Fata Morgana 7 - CS-libri), l’aura fantastica ha spesso un posto anche nei tuoi racconti e romanzi più realistici: penso a certi brani di Irene a mosaico, per esempio. In Lei coltiva fiori bianchi  il fantastico è solo un aroma, dato forse dalle vite inventate da Gloria in viaggio e dal mistero della sparizione della vicina…

C.L. Irene a mosaico è certamente una delle mie cose più fantastiche in quanto il fantastico vi irrompe continuamente. Pensa alla casa che si ribella, o all’esplorazione delle cantine… In questo libro direi che il fantastico è del tutto assente, almeno a livello della mia coscienza. D’altra parte forse c’è proprio nel mio modo di scrivere qualcosa che tende al fantastico, o forse semplicemente al surreale. Ad esempio, molti hanno parlato di Ragazza brutta, ragazza bella come di un romanzo fantastico… mentre non c’è proprio niente di fantastico, nemmeno un piccolo fatto che devii dalla concreta realtà, ma c’è molto grottesco e molto surreale.



pubblicazione e-book on line: http://www.amazon.com/dp/B0077AWWY8

Questo post è pubblicato per gentile concessione del blog  librinuovi-out-of-print

mercoledì 22 febbraio 2012

Yashar Kemal, Guarda l'Eufrate rosso di sangue


Un nobile romanzo che si svolge su un’isola dell’Egeo (l’Isola delle Formiche, forse inesistente ma, da qualche scarna indicazione geografica e altrettanto scarne notizie che ho trovato in rete, identificabile con Agathonissi, detta anche Gaidaro, isoletta a sud di Samo posta di fronte alla costa turca più o meno all'altezza di Didima) dopo la prima guerra mondiale, al momento del cosiddetto (dai turchi) “scambio di popolazione”, cioè la cacciata dei greci residenti  nel territorio della Repubblica Turca appena nata, per motivi nazionalistici e come conseguenza dell’avventatissimo tentativo di invasione greco. Vi sembra argomento complesso? Lo è. 

Comunque. Sull’isola svuotata dei suoi abitanti greci che hanno lasciato case, uliveti, vigne e tutto ciò che non hanno potuto portare via o vendere prima della partenza, giunge Poyaz Musa, turco eroe di guerra dal passato misterioso. Si compra una casa e un mulino, anzi se li fa assegnare dai corrotti o integerrimi funzionari pubblici della più vicina città, e si insedia. Lo turba un’ombra sfuggente che appare e scompare come un fantasma nel villaggio e sulle spiagge. È Vasili, giovane pescatore greco che si è rifiutato di abbandonare l’isola e ha giurato di uccidere il primo che vi metterà piede. Lo seguiamo nei suoi vagabondaggi senza meta né sosta tra il mare e terra, tra pesca e case abbandonate, incalzato dalla solitudine, dalla rabbia e dai ricordi. Capitoli veramente difficili da mandare giù, ripetitivi, lirici, lunghi, immobili proprio per quel continuo agitarsi senza scopo di Vasili. Oltre alla loro solitudine e all’esiguo spazio che condividono, qualcos’altro accomuna i due uomini: l’esperienza devastante della guerra. Poyaz Musa ne è uscito ricco e decorato da una medaglia d’oro che lo protegge, Vasili è rimasto profondamente disturbato, tormentato da incubi e visioni della terribile battaglia di Sarıkamış, dove nel 1914-15 l’esercito ottomano è stato sconfitto dai russi con perdite di oltre 60.000 soldati, morti per il freddo oltre che per l’artiglieria. Poyaz Musa invece ha combattuto contro i francesi a Urfa, ha disertato, si è dato al banditismo in Mesopotamia, ha perseguitato i yezidi, è stato aiutato dall’Emiro di Baghdad, e infine, non si capisce perché, è arrivato all’Isola delle Formiche. L’incontro impossibile tra il greco clandestino e il turco eroe di guerra infine si compie, ma non dico come per non sciupare la sorpresa. 

Intanto, nella seconda parte dove sono narrate le vicende di Poyaz Musa in un lungo flash-back e nella processione di personaggi che visitano l’isola senza decidersi a sceglierla come residenza, veniamo messi alla presenza di molti “tipi” storici, il turco rispedito in patria dalla Grecia, il giovane pescatore ingenuo, il medico idealista e altri. Il romanzo è molto maschile, tutti i personaggi sono uomini, le poche donne che compaiono di sfuggita sono madri, spose devote o fantasmi d’amore che balenano dal passato. L’argomento principale, il collante di tutta la vicenda, è la guerra, la sua assurdità crudele, i danni irreparabili che porta nella vita e nella mente di chiunque ne sia sfiorato. Alla fine però rimane un afflato di speranza, forse l’isola sarà di nuovo abitata e dalle rovine di una convivenza secolare potrà nascerne una più sincera e cosciente.

Ora, tutta questa vicenda storicamente appassionante e ricca è molto difficile da seguire per un sacco di motivi. Il primo, più evidente, è che come romanzo è eccessivamente scombinato, squilibrato nelle parti e nei personaggi. Il protagonista Poyaz Musa, per esempio: veniamo messi al corrente del suo passato da quel flash-back che è una specie di piccolo romanzo nel romanzo, oltre tutto pieno di temi che non si amalgamano per niente con il resto della vicenda, ma ci restano oscuri molti altri particolari della sua storia, in primis come è capitato all’Isola delle Formiche, e com’è finita con i beduini che volevano ucciderlo. Seconda cosa, il titolo. Molto bizzarro per un libro che si svolge in un’isola dell’Egeo, è tratto da un’affermazione dell’Emiro a proposito delle stragi di yezidi proprio in Mesopotamia. Corrisponde al titolo originale, ma in turco c’è un sottotitolo – Storia di un’isola 1 – che mi ha fatto pensare che si tratti del primo volume di un’opera più ampia. Questo spiegherebbe tutto, e renderebbe giustizia all’autore che a fine lettura mi sembrava un po’ carente. 

E per capire meglio l’autore sarebbe molto importante anche conoscere qualcosa di più della sua vita di curdo nato in un villaggio dove ha svolto ogni lavoro umile, dal pastore al contadino, e ha cominciato la sua carriera come bardo e compositore di lamenti funebri. A questo forse si possono ascrivere certi pezzi eccessivamente lirici, o la ripetizione insistita di formule e immagini come la descrizione del mare che cambia colore o i veli abbandonati che conservano l’odore dei seni femminili, eccetera. Insomma, quello che io non capisco è perché la Rizzoli ha pubblicato un libro tanto impegnativo, in edizione cartonata elegante e costosa (20 € sono molti per un romanzo sia pure ponderoso, 400 pagine), affrontando la molto lodevole scommessa su un autore non tanto noto in Italia, per poi abbandonarlo nudo e crudo senza quel tanto di paratesto che sarebbe indispensabile per poterlo apprezzare pienamente. C’è un piccolo glossario, benissimo. Ma sarebbe stato tanto difficile mettere una cartina? Io ho comprato Guarda l’Eufrate rosso di sangue perché negli ultimi anni ho girato la Turchia in lungo e in largo, il che mi ha fatto imparare un sacco di cose e incuriosire di tantissime altre, conoscevo i posti di cui si parla e ho potuto seguire la vicenda con una certa facilità, ma per esempio, pur essendoci stata, ho scoperto qui che a Sarıkamış c’è stata una battaglia così disastrosa. E che il fronte orientale della prima guerra mondiale in Anatolia andava dal Mar Nero alla Mesopotamia. 

Della terribile questione della cacciata dei greci so molto, e ho visto come è sentita e ricordata sia in Turchia che in Grecia, come ancora oggi si tocca con mano l’eredità greca, lo strazio dei villaggi abbandonati, i patetici ricordi e museini che tentano strenuamente di tenere viva una tradizione distrutta da novant’anni. Ma se mi tenessi alla quarta di copertina, dovrei credere che si tratta di una vicenda dei primi anni del Novecento (mentre siamo dopo la prima guerra) che costituisce un capitolo dimenticato della storia turca. Be’, se Rizzoli vuole buttare via i soldi fatti suoi. Siccome però questo romanzo è destinato a un pubblico diverso dai lettori di Moccia e Faletti, mi sembra molto miope questa mancanza di cura. Due pagine di contestualizzazione storica, una cronologia, non penso che avrebbero appesantito il testo né sarebbero costate uno sproposito. Così com’è, se vi interessa leggere questo (apparentemente) squilibrato romanzo, tenete presente che vi toccherà passare un bel po’ di tempo su Wikipedia e Google Maps per cercare le informazioni che l’editore non si è sognato di fornirvi.
L’ottima e flessibile traduzione, questa sì molto curata, è di Simone Abramo e Pınar Gökpar. 

N.B. Non sapete chi sono gli yazidi? Non mi riguarda. Se Rizzoli, in un libro di 400 pagine, se la cava con quattro righe nel glossario, io, in una recensione di poco più di 7000 caratteri, posso ben infischiarmene. ;-)  

sabato 11 febbraio 2012

Ebook: Consolata Lanza, Lei coltiva fiori bianchi

Lei coltiva fiori bianchi  è il titolo di un mio romanzo uscito nel 2007 con le edizioni CS_libri. Una bellissima edizione cartacea, con prefazione di Silvia Treves e fotografie di Cettina Calabrò, cui sono molto affezionata. Adesso ne ho fatto un'edizione digitale in vendita su Amazon al link qui sopra, a 1,17 dollari, cioé 0,76 €. Con la benedizione del mio editore Massimo Citi che è molto avanti, ho voluto provare questa strada su cui intendo proseguire. Non è che mi aspetti molto in fatto di vendite o visibilità, ma sono curiosa e mi piace sperimentare. Inoltre penso che siamo vicini a una svolta decisiva per quel che riguarda i libri. Non so se in futuro continueranno a attirare e avere il peso che hanno adesso, cartacei o digitali che siano. Penso che forse spariranno in quanto assemblamento di pure e semplici parole. Ma non voglio cominciare un discorso in cui hanno detto la loro persone molto ma molto più qualificate di me, e anche molti che parlano (e scrivono) giusto perché hanno la lingua in bocca, o la penna in mano. A chi è interessato consiglio di frequentare questo blog dove se ne discute con competenza e acutezza. Io nell'ebook ci credo, e amo molto il mio ereader. In fondo è la realizzazione di un sogno che ho da sempre, quello della biblioteca portatile, dell'enciclopedia impalpabile. 
Due parole anche sul contenuto del romanzo. Si parla di due donne che si incontrano per caso e diventano amiche: una, Gloria, donna matura che coltiva un giardino fatato nella campagna piemontese, ha fatto una scelta esistenziale opposta a quella di Bea, giovane giornalista che va a intervistarla nel suo eremo. Anche le svolte che il destino riserva alle due donne sono diverse, e entrambe le affrontano come possono e come sanno, tra Goa e Torino. La scelta è tra il coraggio e la sicurezza, argomento trito ma (spero) ancora capace di suscitare interesse. Sarei felice di poter pensare che sono riuscita a coinvolgere qualcuno con le storie di Bea e Gloria. 

lunedì 6 febbraio 2012

Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare



Questo è il terzo libro letto negli ultimi tempi che mi entusiasma. Certamente è solo un caso, ma tutti e tre sono stati scritti da donne: Le ricette più piccanti della cucina tatara di Alina Bronsky, La cartella del professore di Kawakami Hiromi, e questo straordinario Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka. E non sarà un caso invece il fatto che due su tre sono storie di migrazioni, scritte l’una da una ucraina che vive in Germania, Bronsky, e l’altra da una immigrata giapponese di seconda (o terza, probabilmente) generazione, Otsuka, nata in California, che vive e lavora a New York. Otsuka racconta una storia di straziante umanità e di grande interesse storico, ma soprattutto ha trovato una soluzione letteraria geniale che regala a questo libro un tono di verità straordinario. Il romanzo (perché di romanzo si tratta) narra le vicende delle “spose in fotografia”, le donne giapponesi che all’inizio del secolo scorso raggiunsero in California i mariti sposati per procura. Giunsero per mare, cariche di illusioni sul paese che le avrebbe ospitate e sugli uomini che le aspettavano, e furono amaramente deluse. Gli uomini erano più vecchi, più poveri, più ignoranti di quelli che avevano conosciuto per lettera e in fotografia; l’America non le accolse a braccia aperte, le condizioni di vita per la maggior parte di esse si rivelarono dure e lontanissime da quel sogno di benessere che le aveva spinte a lasciare famiglia e paese per salire su una nave affollata di altre donne illuse. La maggior parte di loro si ritrovò a fare la bracciante agricola, senza nemmeno una casa propria, a raccogliere fragole per padroni di cui non conosceva la lingua né le abitudini. Altre andarono a fare le domestiche nelle case in cui i mariti erano giardinieri, altre ancora si ritrovarono in bordelli dai nomi esotici, altre lavoravano nelle lavanderie. Tutte sopportarono uomini insopportabili e fatiche senza sosta. Ebbero figli (il capitolo forse più bello), conquistarono un piccolo benessere, si considerarono parte del nuovo grande paese, di cui conoscevano solo il quartiere in cui vivevano. Poi ci fu Pearl Harbor e improvvisamente divennero nemiche, loro e i loro uomini. Il mondo costruito con tanto impegno e tante lacrime fu spazzato via in un attimo, e loro costrette a partire senza sapere quale fosse la meta. Qui il romanzo finisce, ma il libro precedente di Julie Otsuka, When the Emperor was divine, non ancora tradotto in italiano, narra dell’internamento cui furono sottoposti i giapponesi che vivevano negli USA durante la seconda guerra mondiale. E io me lo procurerò al più presto, perché questa scrittrice è veramente eccezionale. La sua grande invenzione, cui accennavo al principio, è la voce narrante plurale, un “noi” che invece di appiattire le vicende individuali le amplifica e le rende epicamente universali. È uno di quei libri in cui non si può fare a meno di identificarsi, anche se non si è donne né giapponesi né emigrate né braccianti agricole o domestiche. Parla del dolore di lasciare le radici, la nostalgia, la sopraffazione maschile, la miseria e la fatica di ogni vita, maschile o femminile, dei figli e delle mille risorse che ci inventiamo per sopravvivere, del razzismo, della stupefatta impotenza di chi si vede privato di tutto senza colpa e senza motivo. E il miracolo è che ce ne sentiamo parte, che ci siamo anche noi nel “noi” delle donne giapponesi che arrivarono per mare.
Un esempio, tratto dal capitolo “Bambini”: Partorimmo sotto una quercia, d’estate, con una temperatura di quarantacinque gradi. Partorimmo accanto alla stufa a legna nell’unica stanza della nostra baracca, nella notte più fredda dell’anno. Partorimmo su un’isola ventosa del Delta, sei mesi dopo il nostro arrivo, e il neonato era minuscolo e trasparente, e dopo tre giorni morì. Partorimmo nove mesi dopo il nostro arrivo, un bambino perfetto con una gran massa di capelli neri. Partorimmo in un polveroso accampamento nei vigneti di Elk Grove e Florin. Partorimmo in una fattoria remota della Imperial Valley, con il solo aiuto di nostro marito, che aveva imparato cosa fare sul Manuale della casalinga. […] Partorimmo in silenzio, come nostra madre che non gridava e non si lamentava mai. Lavorò nelle risaie finché non le vennero le doglie. Partorimmo piangendo, come Nogiku, che prese la febbre e non si alzò dal letto per tre mesi. Partorimmo con facilità, in due ore, e poi ci venne un mal di testa che rimase con noi per cinque anni. Partorimmo sei settimane dopo che nostro marito ci aveva lasciate, una bambina che ora ci pentiamo di aver dato via. Dopo di lei non sono più riuscita a concepire un altro figlio. Partorimmo di nascosto, nei boschi, un bambino che nostro marito sapeva non essere suo. Partorimmo sopra uno sbiadito copriletto a fiori in un  bordello di Oakland, mentre ascoltavamo i grugniti provenienti dalla stanza accanto.
Julie Otsuka ha raccolto centinaia di storie e con questa scelta forte di non privilegiarne nessuna è riuscita anche a non escluderne nessuna. La bella e sensibile traduzione è di Silvia Pareschi.

venerdì 3 febbraio 2012

Cronache di Bolzaretto Superiore

Il tavolino di Carlin
Tra i tavolini del bar Evaristo ce n'è uno che non è mai occupato. Tanto torna, dice Evaristo mentre lo spolvera, tutte le mattine. Invece resta sempre vuoto. Era il tavolo di Carlin, che a differenza degli altri clienti (dove vuoi andare se vivi già nel posto più bello del mondo?) tutte le estati partiva per le vacanze. Andava col suo zaino sulle spalle, certe volte a sud altre a nord, partiva solo ma poi incontrava qualche ragazza, si fidanzavano e proseguivano insieme, o facendo l'autostop lo caricava una famiglia generosa, con una mamma di quelle che si preoccupano se mangi abbastanza, e per il resto dell'estate Carlin era a posto. Quando tornava era bello grasso o scheletrico a seconda del tipo di donna che gli aveva riempito le vacanze. Ma vedeva anche un sacco di cose, e durante l'inverno ne faceva il resoconto al suo tavolino del bar Evaristo. Nelle sue parole luccicavano lontananze iridate, e i paesi che aveva visitato erano illuminati dai colori delle favole. Non c'era mai posto lì intorno. Lui raccontava e gli altri clienti se ne stavano a ascoltare a bocca aperta. Evaristo in prima fila. Poi una volta a settembre il tavolino è rimasto vuoto. Carlin non tornava e Evaristo diventava sempre più nervoso. "Ma che fine avrà fatto?" Nessuno lo sa, ma la verità è che ha incontrato una sirena mentre se ne stava affacciato dal parapetto di un traghetto in Grecia, si sono messi a chiacchierare e alla fine lei lo ha invitato a fare due bracciate. Un tuffo e via. Dopo le due bracciate un po' di surf, qualche capriola con i delfini, si sa come vanno queste cose. Che cosa doveva fare secondo voi, Carlin? Tra un tavolino e una sirena la scelta è facile, e infatti lui non ha esitato. Ma poi, anche ammettendo che gli sia venuta voglia di farlo, saltare fuori dall'acqua e arrampicarsi sulla fiancata liscia di una barca non è semplice. Che torni, ormai ci spera solo più Evaristo.

mercoledì 1 febbraio 2012

Daniela Ronchi della Rocca, La gestazione del castoro


Quattro amiche unite da antica consuetudine e vari gradi di intimità in viaggio per il mare: la megamanager cinica, generosa e attivissima detta Bellisario; la musicista ferita nell’anima e nel corpo, Eleonora; la moglie ricca, Vittoria, madre di due figli e frustrata dall’inattività; Giulia, inviato speciale e madre divorziata. Lo spunto è ricco di possibilità e il narratore onnisciente le sfrutta al meglio descrivendo di ognuna il passato e la psicologia. Giunte alla villa di Bellisario, dove intendono trascorrere un week end lungo, cominciano a presentarsi sulla scena alcuni personaggi maschili, Paolo il personal trainer carino, Jakob il miliardario americano un po’ deus ex machina un po’ Babbo Natale sbevazzone, Ottavio il marito cortese e Anselmo il segretario gay, tutto sommato molto meno importanti delle quattro amiche anche se la loro comparsa determina svolte narrative importanti. I temi che muovono la vicenda sono il denaro, forse l’ambizione, certo il potere, l’amore sullo sfondo, ma soprattutto l’amicizia o meglio il gioco dei rapporti interpersonali. Quando tutti tornano a Milano forse sono cambiati un poco, certo conoscono meglio i propri desideri e possono cercare di trasformarli in realtà. Nell’ultima parte l’azione si trasferisce in un’India vista con gli occhi della ricchezza occidentale, dove amicizia e denaro si fondono alla perfezione per realizzare un’impresa che deve portare la felicità a Eleonora e forse anche a Bellisario, mentre per Giulia e Vittoria si prospettano altri successi personali. Una storia che procede attraverso i dialoghi, come si addice a un gruppo di donne quando si riuniscono.
Daniela Ronchi della Rocca, psicoterapeuta, vive a Torino. Ha pubblicato un’autobiografia in versi e questo è il suo terzo romanzo.