giovedì 29 marzo 2012

MARIA SANTINI, CANDIDA SOROR



Giovanni Pascoli con la sorella Maria
Il libro di cui voglio parlare adesso non è recente (2005), non credo sia facile da reperire (ma certo lo troverete qui), è decisamente troppo caro. Ma vale senz’altro la pena di  leggerlo, e potrà darvi, come ha dato a me, un gran piacere. Non è un romanzo ma la biografia documentata e appassionante, pur nel nulla di cui si compone, di Maria (Mariù) Pascoli, 1865-1953, la sorella del titolo del più lacrimoso tra i nostri tre tromboni poetici tra Otto e Novecento, Carducci Pascoli D’Annunzio. Anche il più apprezzato dalla critica attuale (diciamo pure l’unico ancora preso sul serio) per il suo sperimentalismo, il superamento di retorica e classicismo, la vicinanza a movimenti europei come simbolismo e decadentismo. Anche il più insopportabile, diciamocelo pure, con i suoi cocchi freschi e le rondini che fanno videvitt e i pigolii di stelle e Zvanì e le mamme che piangono e le culle che dondolano. 

Ma non è solo questo. Anche se ha contribuito a ammorbare la mia giovinezza liceale, mi ha sempre colpito e un po’ affascinato la sua morbosità. Quel gran trafficare con i morti, frequentare tombe, le estreme unzioni, l’erba che nasce sulle fosse, e i fantasmi, le tessitrici defunte, i morticini con i boccoli biondi eccetera, e soprattutto la morbosità sessuale che salta fuori tra un decesso e una campana a morto. Rileggetevi Digitale purpurea e Il gelsomino notturno e ne riparliamo. Poi ho visitato la casa di Castelvecchio in Garfagnana (anche questa vale la pena, se passate da quelle parti non perdetevela, vi darà da pensare e anche qualche brivido; ad esempio, tanto per tenersi allegra, Mariù vi ha ricostruito la camera dov’è morto il fratello a Bologna, intatta e completa) e mi è venuta una gran curiosità su Mariù che vi è vissuta prima con Giovanni, poi, dopo la morte del fratello nel 1912, da sola fino al 1953. 

Vestale e custode delle memorie del poeta, testa quadra, lagnosa e tentata dalla poesia in proprio, bigotta, pochissimo aperta ai rapporti umani al di fuori della coppia fraterna di cui è protagonista, attentissima ai soldi. Lui, in compenso, agnostico, massone e alcolizzato, ma sempre lì a dire le orazioni prima di dormire per far contenta la sua Mariucchin. Tutto ciò per spiegare che, appena ho visto il volume di Maria Santini sul banco, mi sono precipitata a comprarlo. E ho fatto benissimo, perché me lo sono goduto pagina per pagina fino alla fine. Ha anche un ottimo paratesto, note e bibliografia, una piccola appendice di poesie citate, e un prezioso albero genealogico. 

Perché la parte più interessante è proprio l’origine di tutto quanto detto prima: c’è un motivo dietro alle lacrime e alla chiusura dei due Vergini, come definiva sé e la sorella lo stesso Pascoli. Basti dire che dei dieci fratelli Pascoli rimasti orfani di padre per la famosa fucilata a colui che non ritorna e di madre per crepacuore, una morì a dieci mesi, una a cinque anni, uno a diciassette, una a diciotto e uno a ventiquattro, già padre di un bambino e mezzo, entrambi (l’uno e il mezzo) destinati a morire infanti. E di altre morti premature è costellata la vita dei due Pascoli, sia in famiglia che tra gli amici. L’infanzia e la giovinezza di tutti i fratelli superstiti fu terrificante, tra ristrettezze economiche, conventi, collegi e solitudine, ma qualcuno ne uscì meglio e altri peggio. 

La vita di Mariù fu tutta spesa all’ombra del fratello, condizionata dall’ideale del nido all’inizio
Casa Pascoli a Castelvecchio in Garfagnana
condiviso anche con la sorella Ida, poi fuggita per sposarsi (con la conseguenza che Giovanni andò completamente fuori di testa), di cui divenne in seguito inflessibile sacerdotessa, tanto che persino gli altri fratelli ne vennero esclusi. Seguì Giovanni in quasi tutte le sedi in cui andò a insegnare, fu colei che gli faceva bella la vita (e secondo molti, anche quella che gliela rovinò dando in smanie in occasione dei fantomatici fidanzamenti di lui). Fu persino adombrata la possibilità di un rapporto incestuoso tra i due, risolutamente smentita dall’autrice che si appoggia sempre su lettere e altri scritti dei protagonisti, fortunatamente dei gran grafomani. 


Un altro difetto del libro, assolutamente giustificato dal fatto che è la biografia di Maria, è che ci rimane molta curiosità di saperne di più del punto di vista di Giovanni, soprattutto sulla famosa crisi di disperazione per il matrimonio di Ida, o lasciatemelo dire, sulla verità della sua vita sessual-sentimentale. Insomma un libro colto, documentato, scritto benissimo, interessante, e che ci permette di lasciarci andare al piacere del gossip pruriginoso senza dovercene vergognare, perché quando si tratta di un poeta e sua sorella anche i pettegolezzi diventano cose serie, no?   

sabato 24 marzo 2012

Elizabeth Strout, Resta con me


Scritto prima del fortunato Olive Kitteridge ma tradotto e pubblicato in Italia l’anno dopo, questo romanzo ambientato nel 1959 a West Annett nel Maine narra la vicenda del pastore protestante Tyler Caskey, giovane e attraente vedovo padre di due bambine piccole, Katherine e Jeannie. La moglie, Lauren, molto amata ma forse poco capita e accettata, è morta da qualche mese e la comunità in cui il pastore si è inserito da poco lo accoglie a braccia aperte e cerca di aiutarlo. Ben presto, però, cominciano ad apparire inquietanti segnali di incomprensione, e l’estraniamento di Tyler da West Annett si manifesta attraverso le rimostranze della maestra d’asilo di Katherine circa il comportamento della bambina, i dubbi sollevati dalle prediche inconsuete del pastore, troppo sensibile alle parole di alcuni santi cattolici, lo stupore e le chiacchiere per l’eccesso di familiarità con la domestica a ore, la sua freddezza verso le premure inopportune di parrocchiane in cerca di attenzione. Sale l’onda delle maldicenze e della diffidenza mentre Tyler si dibatte nella difficoltà del suo rapporto con Dio, con la piccola Katherine, con il ricordo della moglie, con la madre troppo invadente, con le donne in generale. Scritto benissimo ma un po’ freddo e forse non proprio appassionante come tematiche, Resta con me procede con un certo impaccio aumentato dall’eccesso di temi che sfiora senza svilupparli: eutanasia, suicidio assistito, molestie sessuali in famiglia, colpa e innocenza, fede religiosa e necessità di venire a patti con il mondo e la carne… Insomma non è l’ambizione che manca al romanzo, ma l’unico tema trattato a fondo, quello della piccola comunità, della nascita e diffusione di pettegolezzi e maldicenze, della difficoltà per lo straniero di inserirsi e per la comunità di accettarne la diversità, perde molta della sua efficacia per l’ambientazione in anni così lontani nel tempo. La sorte di Tyler Caskey, protagonista non riuscitissimo, coinvolge poco e Resta con me non conquista. La bella traduzione e le esaurienti note che Fazi, lode all’editore, non teme di mettere in calce al volume sono di Silvia Castoldi.        

lunedì 19 marzo 2012

LEGGERE COSE TURCHE IN TURCHIA


Negli ultimi anni ho girato la Turchia un po’ in lungo e in largo, e naturalmente la curiosità mi ha portato a leggere molti libri di autori turchi, o che ne parlano. Quest’anno me ne ero portata dietro alcuni, diversissimi per valore e leggibilità. Ho cominciato con un romanzo giallo che mi ha fatto arrabbiare moltissimo, tanto che ne ho scritto delle note a caldo, a Trebisonda. E niente facili ironie su quello che si può perdere in quella città. Mi dispiace davvero per Sellerio che è un mio mito insuperato, ma questo Hotel Bosforo di Esmahan Aykol è uno dei libri più brutti che abbia mai letto. E soprattutto più inutili. Una trama insulsa e del tutto pretestuosa, un giallo di cui non frega niente a nessuno, men che meno all'autrice che per tre quarti del libro pensa a altro e poi alla fine telefona la soluzione giusto per scaricarsi la coscienza. E il motivo del delitto, che non rivelo, è quello più sfruttato nella maggior parte dei libri degli ultimi dieci-quindici anni. Il resto è una serie di cliché dei più banali, scritti nella prosa di una ragazzina di prima media poco dotata ma convinta di essere spiritosa. Sembra un repertorio di luoghi comuni sui turchi a uso dei tedeschi, e viceversa. Tipo: i turchi fumano come turchi, i tedeschi sono precisi. Ma va'? È come se Aykol volesse gratificare gli uni e gli altri presentandoli a volte con gli occhi di un popolo, ora dell'altro. Il risultato è che come terzi ci si sente un po' esclusi.

Si svolge in una Istanbul tutta localini furbi e gran bevute, naturalmente lontanissima dal turismo ma non per questo meno stereotipata e finta. L'insopportabile protagonista, libraia tedesco-turco-ebrea specializzata in gialli, il che per qualche ragione che non ho afferrato la qualificherebbe a risolvere delitti, incontra una vecchia amica tedesca che resta invischiata in un assassinio. Primo, non si capisce perché la tedesca ha cercato la libraia di cui aveva perso le tracce da secoli. Due, la libraia fa un paio di telefonate da scocciatrice e questo è tutto lo sviluppo della trama. In compenso tutti se la vogliono scopare, e lei non sembrerebbe mal disposta, non disdegna poliziotti né delinquenti ma alla fine la vita la premia. L'unica idea che ha in testa è andare dall'estetista, avere le unghie in ordine e mettersi elegante. Ah no, dimenticavo, anche schiaffare la madre in un ospizio alle Baleari. L'autrice è talmente stupidotta che crede di dare pennellate di realtà nominando un paio di volte la "crisi di febbraio” (di che, e di che anno?).
Insomma, mi chiedo perché questo libro è stato tradotto: sperando di cavalcare l'onda dei gialli esotici? Ma questo non è né giallo né esotico, solo un'emerita cazzata che fa venire i nervi per il tempo sprecato a leggerlo. E per Sellerio, che sa fare di molto meglio.
L‘autrice, nata nel 1971 a Edirne, vive tra Berlino e Istanbul, è stata giornalista e barista e ora si dedica esclusivamente alla scrittura. Traduzione di Emanuela Cervini.    

 

Mi è andata molto meglio con Scandaloso omicidio a Istanbul di Mehmet Murat Somer, anche questo pubblicato da Sellerio (ma Gli assassini del Profeta, dello stesso autore, è appena uscito da Bompiani). A differenza dell'inqualificabile Hotel Bosforo, si tratta di un giallo divertente e notevolmente sofisticato in cui Istanbul è una presenza reale, fuori dai cliché turistico-folkloristici ma convincente. Il/la protagonista, personaggio che potrebbe essere molto rischioso, risulta invece simpatico e plausibile: non ha nome, parla di sé al femminile ma di giorno lavora come informatico abilissimo e un po' hacker (caratteristica ormai inevitabile per ogni personaggio poliziesco, Sherlock Holmes ai giorni nostri invece che chimico eccellente sarebbe hacker) in panni maschili, la sera si veste da donna, preferibilmente seguendo il modello Audrey Hepburn, e si reca al night-club di cui è comproprietaria, dove non disdegna di fare la sua parte di marchette. Spasima per ogni maschio ben messo e attraente, il suo idolo è John Pruitt: ho controllato, un modello palestrato e lucido. Si offende se la chiamano finocchio ma pretende rispetto e attenzioni come donna, e nel caso è in grado di mettere ko i più muscolosi usando arti marziali e semplici botte. È coraggiosa, vagamente ironica, paziente con le altre "ragazze" che le contano i loro guai e la tirano in mezzo, forse un filino distaccata ma senza snobberie, e coinvolta fino in fondo. Quando una delle ragazze, che le ha chiesto aiuto, viene uccisa, parte in quarta alla ricerca della verità in modo forse imprudente e avventato ma certo non timido. 


La soluzione del delitto, in cui compaiono mafia dei ricatti e un politico iperconservatore, è complessa e io forse non ho capito proprio fino in fondo ma non ha importanza, è così che deve andare. La realtà è complessa, il mondo pieno di doppi fondi e inganni, non si può pretendere che giustizia sia sempre fatta. Tutta la vicenda si svolge poi tra interni piccolo borghesi (descritti in modo molto divertente e acuto), night club, molti taxi, la città notturna e il confortevole appartamento della protagonista, in modo del tutto naturale. E i personaggi di contorno sono tratteggiati alla svelta ma a fondo, il mondo dei travestiti è nitido e privo di qualsiasi sfumatura di giudizio, e privi di pregiudizi appaiono anche gli abitanti di Istanbul, la cui parte maschile gradisce molto schiettamente la compagnia delle "ragazze". Insomma sono contenta che sia stata tradotta un'altra avventura della serie, e la leggerò. Mehmet Murat Somer è nato nel 1959, vive a Istanbul e dalle sue interviste sembra un tipo molto simpatico. È stato ingegnere alla Sony, dove ha acquistato la sua competenza informatica, e ha cominciato a scrivere quando ha dovuto lasciare il lavoro per motivi di salute. Immagino che in una società sessualmente conservatrice come quella turca, la/il sua/o protagonista non abbia lasciato indifferenti. Traduzione di Anna Lia Proietti Ergün.


Passando a letture un po’ più corpose, La figlia di Istanbul di Halide Edip Hadivar, un superclassico del 1935 appena tradotto da Elliot, mi ha definitivamente riconciliata con il mondo.
Quanto a Halide Edip Hadivar, si tratta di un monumento nazionale, tanto che è citata nel giallo di cui sopra come donna famosa per antonomasia, e il suo romanzo maggiore, appunto La figlia di Istanbul, uscito prima in inglese poi in una versione in turco, riveste una grande importanza nella cultura nazionale, è studiato a scuola e ha avuto numerose trasposizioni teatrali, cinematografiche e televisive. L’autrice vi racconta gli anni che ha fatto in tempo a vivere tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, quando ancora la Turchia era sotto il dominio di un Sultano e della sua ricca e raffinata classe dirigente, ma cominciavano a sentirsi i primi moti di ribellione dei Giovani Turchi che poi sfoceranno nella rivoluzione del 1908. La protagonista, Rabia, è una bambina di origine modesta, nipote di un imam rigidissimo, la cui figlia si è incapricciata di un attore di strada e lo ha sposato sperando di trasformarlo in negoziante. Ma il matrimonio non dura, il padre sparisce e Rabia cresce sotto il controllo del nonno, che le insegna a recitare il Corano in arabo nelle funzioni religiose. Rabia, che ha una bellissima voce, viene presa sotto la protezione di una ricca dama che le fa dare un’istruzione nel suo palazzo. Di qui inizia l’ascesa sociale della ragazza. Richiestissima in tutte le cerimonie religiose, frequenta persone colte e potenti, si scontra con situazioni difficili, soffre, ama e forse riuscirà a essere felice. 

Più della vicenda in sé, che forse ha aspirazioni metaforiche un po’ oscure per noi oggi da interpretare, è godibile l’ambientazione in una Istanbul dove sorprende la mancanza di barriere sociali, in cui si muovono personaggi molto attraenti: il padre di Rabia, ingenuo e impulsivo ma artista nell’anima, attore e regista di teatro delle ombre; il derviscio saggio e indulgente verso le debolezze umane; la ricca signora che non vuole invecchiare e dalle stanze dell’harem organizza, invita, decide e muove i destini di molte persone; le schiave circasse, per le quali “la bellezza è necessaria perché sposano i sultani”; gli alti funzionari dell’impero, mossi dal senso dovere e dello stato, che alla fine devono aprire gli occhi sulle ingiustizie e le crudeltà perpetrate dal Sultano; e naturalmente la protagonista, bambina e poi ragazza dalla tempra d’acciaio, religiosa ma dotata di indipendenza di giudizio, volontà e anticonformismo, un personaggio magari non simpaticissimo ma pienamente convincente. Insomma un romanzo ancora leggibile e gradevolissimo, non del tutto riuscito nella struttura, un po’ brusco nel finale, ma pieno di particolari, vivace nel ricreare un ambiente e l’atmosfera del quartiere di Sinekli Bakkal (“il droghiere assillato dalle mosche”) che dà il titolo in lingua originale. 

Bella traduzione e esaurienti note di postfazione di Fabio De Propris. Devo dire che raramente si leggono libri di narrativa con un paratesto tanto completo. Helide Edip Hadivar fu la prima donna a diplomarsi al liceo americano di Istanbul, è stata insegnante, socialmente e politicamente impegnata, seguì Mustafa Kemal (Atatürk) nella guerra d’indipendenza, ma poi se ne distaccò per dissidi politici. Tornò in Turchia dopo la sua morte, insegnò all’università, fu deputata in Parlamento e morì nel 1964.


Ci voleva, dopo i dolori che mi aveva inflitto il mio amatissimo Orhan Pamuk.
Pensare che sono andata fino a Kars, che, vi assicuro, non è vicina oltre a essere un posto tra i più insoliti che si possano visitare, piena di emozione perché è il luogo dove si svolge quel meraviglioso romanzo che è Neve (che rimane secondo me un testo fondamentale per chi vuole cominciare a capire le complicate relazioni politico-sociali-religiose della Turchia, così diverse anche nelle definizioni, dalle nostre), e ho trascorso ore sotto la pioggia alla ricerca dei luoghi descritti. Ma in viaggio mi ero portata Il libro nero, che mi ha stravolta di noia malgrado ci siano cose bellissime, e bloccata per un bel po' perché andavo avanti a mezza pagina al giorno. Il problema, e non è la prima volta che capita con Pamuk, mi era già successo con La nuova vita, è che non sono riuscita a capire di che cosa parlasse questo romanzo. E mi piacerebbe molto, proprio molto, che qualcuno me lo spiegasse. Il fatto è che Pamuk mi strega con le parole, che usa in modo meraviglioso costruendo mezzetinte e sinfonie di sensazioni, nostalgie, sfumature, brividi, mi attira come un pifferaio magico dipingendo con una frase un personaggio, un paesaggio, un tratto umano che mi colpisce al cuore: poi di colpo si fa filososo di una filosofia che non capisco e non mi stimola. Così finisce che leggo pagine su pagine per obbligo, con il desiderio di tagliarmi le vene per farla finita in fretta. 

Il libro nero si svolge in una Istanbul notturna, anche troppo misteriosa e oscura. Io ho adorato Istanbul, libro pervaso dalla più lancinante nostalgia, affascinato e affascinante inno d’amore per una città meravigliosa; il capitolo decimo, Tristezza, è una delle cose più belle che abbia letto in vita mia. Qui tornano molti dei temi di Istanbul, la città per prima cosa, il quartiere di Nışantaşı, il palazzo di famiglia, la notte, i rapporti familiari, ma è un’altra cosa. Il protagonista Galip, avvocato felicemente sposato con Rüya, una cugina che ha avuto momenti di sbandamento nella prima giovinezza, tornando a casa trova un biglietto della moglie che gli annuncia di essersene andata: diciannove parole scritte con una biro verde. Si sono perse anche le tracce di Celâl, fratellastro di Rüya e giornalista famoso, che tiene una rubrica seguitissima su un quotidiano a diffusione nazionale, a sua volta cercato da una troupe televisiva inglese che lo vuole intervistare e da misteriosi lettori che conoscono tutti i suoi articoli a memoria. Galip segue le tracce di entrambi, e nelle sue peregrinazioni si imbatte in situazioni grottesche come il bordello le cui ragazze sono sosia di famose attrici, visita i sotterranei in cui un artista folle ha stipato i manichini che riproducono tutti i tipi di abitanti della città, incontra persone del passato suo o di Rüya variamente perse nelle loro ossessioni, si introduce nello studio di Celâl e a poco a poco si sostituisce a lui, arrivando a scrivere lui stesso la rubrica. La conclusione, quando arriva, non chiarisce ma sicuramente pone termine alla ricerca. La narrazione di questa vicenda è alternata agli articoli di  Celâl, alcuni dei quali veramente straordinari come la descrizione di quello che succederà quando il Bosforo sarà prosciugato o la fascinazione per il cavedio del Palazzo Cuor della Città dove tutta la famiglia aveva abitato un tempo. 

Ma tutto questo è un niente di fronte all’accumulo che intasa le pagine del libro nero, appesantito dall’aspirazione di farsi enciclopedia della Turchia e da metafore insistite, ripetute e incomprensibili come l’ossessione, di Celâl prima e poi anche di Galip, per le lettere che si possono leggere sui volti delle persone, per la sensazione dell’Occhio che li insegue, o la persecuzione del lettore che lo accusa di plagio, che si sovrappongono alle potenzialità di interesse della storia, spegnendole. Almeno per me che fatico a capire le astrazioni, e mi sono trovata a divincolarmi nella noia mentre immagini struggenti e folgoranti andavano perdute nella fatica di arrivare alla fine della pagina. Bisogna dire che ho viaggiato in macchina per cui il tempo della lettura era spesso limitato alla sera, mentre questo libro richiederebbe di essere affrontato con più calma e concentrazione. Comunque, magari un capolavoro ma di una pesantezza davvero notevole.
Traduzione meravigliosa di Şemsa Gezgin.


Per riprendersi completamente è perfetto il libro che ho letto dopo, Un viaggio in Turchia di Irfan Orga. Nato nel 1908 da una ricca famiglia borghese che perse tutto con la guerra del 1914-18, fu ufficiale d’aviazione di stanza in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, ma al suo ritorno in Turchia venne processato e radiato perché viveva senza essere sposato con una straniera, irlandese, in attesa che lei ottenesse il divorzio. Nel 1947 tornò definitivamente a Londra dove scrisse parecchi libri direttamente in inglese. Morì nel 1970. Un viaggio in Turchia racconta un soggiorno nella sua terra d’origine fatto da Orfa nel 1955-56, data smentita dal figlio nella postfazione, ma che coincide con alcuni cenni alla situazione politica contenuti nel testo. La traduzione dall’inglese di Luca Merlini è molto imprecisa e talvolta anche sbagliata: la grafia dei nomi turchi varia di volta in volta, Diyarbakir è scritto almeno in tre modi diversi, oltre a diventare talora invece che una città, una regione, – non ce l’ha un correttore automatico? E perché non traduce Selcuk, che addirittura in un punto diventa nome di un sultano, mentre si tratta della dinastia che in italiano si chiama Selgiuchide? Ciò detto questo è un libro scorrevolissimo e molto godibile. 

L’autore, a metà tra l’etnologo dilettante e il vagheggiatore romantico dei bei tempi eroici, arriva a Smirne dall’Inghilterra ma l’inquietudine lo spinge a proseguire verso Konya a visitare un conoscente, Hickmet Bey, proprietario terriero e notabile locale. Con lui, un altro compagno e una guida compie un’escursione sul monte Karadağ, nei pressi della città di Karaman, alla ricerca dei nomadi Yürük che vi si accampano nei mesi estivi, mentre d’inverno uomini e bestie cercano riparo ai rigori dell’inverno anatolico nella località detta Binbirkilise, cioè le Cento Chiese, un sito di rovine bizantine. Tutti partono armati della pistola da cui non si separano mai, ma con scarpe da città e senza la minima attrezzatura per l’eventualità di dover trascorrere una notte all’aperto, cosa che puntualmente si verifica perché il villaggio in cui contavano di trovare ospitalità si rivela abitato da persone ostili e minacciose. Malgrado tutto riescono a raggiungere gli Yürük, che, ospitali e indifferenti, li accolgono nel loro accampamento per tre settimane durante le quali volentieri raccontano le proprie credenze, leggende, abitudini e tradizioni, permettendo ai quattro ospiti di condividere le loro giornate, partecipando a battute di caccia e incontri sociali con donne e uomini. 

Irfan Orga è evidentemente affascinato da questa popolazione arcaicamente autosufficiente, contenta della propria esistenza, priva di desideri, che pur avendo contatti con la civiltà dei contadini e della città non ne è per niente attratta. Gli Yürük si ritengono fortunatissimi e pensano che l’accampamento sia la felicità e soprattutto sono del tutto liberi. Lì sulla montagna stato e legge non arrivano, la giustizia se la fanno da sé, vivono allevando pecore, capre e cammelli, coltivando pochissimo mais e frumento, tagliando legna in foreste lontane giorni di cammino e vendendo in città quella in esubero, e cesti di giunco. Sono musulmani ma hanno sciamani che praticano magia bianca e nera (l’autore ne fa esperienza diretta). Le donne sono molto più libere delle altre turche, non si velano il viso, non sono timide, lavorano moltissimo nell’accampamento e al pascolo, tessono, partoriscono in cammino senza fermarsi neanche un giorno, e sono soggette a leggi crudelissime che regolano il loro comportamento sessuale cui è legato l’onore della famiglia. Naturalmente ci sono poi dettagli quali la mancanza di igiene, malattie, mortalità per parto e infantile, faide sanguinose, pericoli ambientali (tra cui serpenti e orsi, in un episodio tra i più impressionanti una bambina di tre anni è rapita da un’orsa che ha perso il cucciolo). 

Ifan Orga è un autore sincero e trasparente, persino ingenuo, è facile leggere tra le righe la sua attrazione per questo mondo  favoloso insieme alla repulsione del cittadino abituato a lavarsi, l’ambiguità tra lo “sforzo di capirli, di tirar fuori da loro qualcosa di grandioso e di eroico collegandoli all’Uomo Primitivo” e la sconsolata constatazione “forse erano niente di più che pigri buoni a nulla. Forse il loro nomadismo era una forma di imbecillità”. Oggi gli Yürük, anche detti Turcomanni, sono praticamente tutti sedentarizzati e usano pick-up al posto dei cammelli. In effetti in questi ultimi anni non ho più visto cammelli, neanche nella steppa orientale dove gli accampamenti estivi sono ancora diffusissimi, tranne un unico esemplare condotto a mano su una strada asfaltata nell’entroterra di Smirne; mentre ricordo benissimo, nel mio primo viaggio in macchina in Turchia, nel 1970,  la sorpresa felice dell’incontro con una carovana nei pressi di Pergamo.

Dello stesso autore, che non è né un etnografo né uno storico, è solo uno scrittore che narra le sue esperienze, capace però di descrizioni vivaci e eccellente nel ricreare atmosfere d’antan viste con l’occhio di un bambino, consiglio senz’altro anche Una famiglia turca, avvincente romanzo autobiografico in cui Orfa racconta la vita quotidiana a Istanbul dagli ultimi anni dell’Impero ottomano al 1940, attraverso le vicende di una ricca famiglia borghese in seguito rovinata dalla Prima Guerra mondiale. Le figure della madre e della nonna, donne allevate per vivere protette dai loro uomini e chiuse in case confortevoli improvvisamente costrette a uscire per cercare il cibo, a muoversi da sole nelle strade, a cucinare, cucire e svolgere tutte quelle incombenze che hanno sempre creduto degradanti, a subire umiliazioni legate alla loro condizione di donne sole e impoverite, sono tratteggiate lucidamente e senza eccessiva indulgenza. Lo spaccato della società istanbuliota che ne esce è vivido, anche i personaggi minori risaltano con efficacia sullo sfondo tragico di quegli anni. Dopo avere toccato il fondo della miseria e delle umiliazioni, i figli alla scuola dei poveri dove mangiano bacche di eucaliptus e radici per non morire di fame, la madre mettendosi a lavorare, lentamente le cose cominciano a andare meglio dopo la guerra, i figli maschi sono accettati alla scuola militare, si impone sulla scena Kemal Atatürk, la proclamazione della Repubblica cancella definitivamente i resti della gloria ottomana, c’è la deportazione degli armeni, i grandi cambiamenti, la vita che va avanti, fino al 1940, quando la madre muore e la famiglia è definitivamente disgregata. La postfazione del figlio Ateş è illuminante e completa bene la narrazione. Oltre a essere di gradevolissima lettura, Una famiglia turca è utile per capire quegli anni complicati e seguire la trasformazione della Turchia da impero decrepito a stato moderno attraverso le concrete vicende di un testimone oculare. Anche in questo libro la traduzione di Luca Merlini è molto incerta; ad esempio, il Mar di Marmara diventa “la Marmara” che scorre mormorando come il Piave.    

ESMAHAN AYKOL, HOTEL BOSFORO, Sellerio 2010, ediz. orig. 2003, traduz. dal tedesco di Emanuela Cervini, pp. 265, € 13,00

MEHMET MURAT SOMER, SCANDALOSO OMICIDIO A ISTANBUL, Sellerio 2009, ediz. orig. 2003, traduz. dal turco di Anna Lia Proietti Ergün, pp. 312, € 13,00

HALIDE EDIP HADIVAR, LA FIGLIA DI ISTANBUL, Elliot 2010, ediz. orig. 1936, traduz. dal turco e cura di Fabio De Propris, pp. 472, € 19,50

ORHAN PAMUK, IL LIBRO NERO, Einaudi 2007, ediz. orig. 1994, traduz. dal turco di Şemsa Gezgin, pp. 505, € 14,50

IRFAN ORGA, UN VIAGGIO IN TURCHIA, Passigli 2008, ediz. orig. 1958, traduz. dall’inglese di Luca Merlini, pp. 207, € 16,50

IRFAN ORGA, UNA FAMIGLIA TURCA,  Passigli 2007, ediz. orig. 1950, traduz. dall’inglese di Luca Merlini, pp. 2007, € 19,50

giovedì 8 marzo 2012

La giornata delle scrittrici


Va be’, visto che è l’8 marzo e non ho condiviso niente con le mie amiche e compagne di genere, farò un elenco delle scrittrici che mi hanno reso più dolce la vita. E voglio sdarmi: comincerò con la lista delle prime dieci. Comincerò con Jane Austen, occhio che osserva e voce che racconta sparendo dietro ai suoi personaggi; Agota Kristof, che non ha sprecato neanche una parola nella sua Trilogia della città di K.; Magda Szabó, e le sue pagine cariche di vita anche sgradevole; Barbara Pym, che dà voce alle umili vite che traggono senso dalle proprie rinunce; Karen Blixen per la sontuosa e geometrica immaginazione; Agatha Christie e i suoi misteri precisi e senza ombre, dove non ha spazio l’imprevisto che sconquassa; Alki Zei, che racconta insieme una Grecia sparita e delle passioni di cui sento la mancanza; Mary Wesley, storie in sordina di donne per bene; Julie Otsuka che ho appena incontrato e sono certa mi resterà nel cuore, una voce plurale per raccontare mille storie individuali; Kawakami Hiromi, anche lei appena conosciuta ma mi ha commossa con il suo amore fatto di silenzi e gesti senza eco. Fine delle prime dieci ma ce ne sono molte altre. Certo entrambe le sorelle Brontë, la sfrenata visionaria Emily e la combattiva Charlotte; Elizabeth Gaskell e George Eliot, con riserve; per esempio M.M.Kaye, con la sua India così meravigliosa e romantica; Penelope Fitzgerald e la sua incredibile capacità mimetica; Elizabeth Taylor, altra perfetta narratrice britannica; a suo modo anche Banana Yoshimoto, un flirt del tempo che fu; certo Helen Fielding che mi ha fatto molto ridere e Fay Weldon, femminista e molto spiritosa. Patricia Highsmith, perfida e tanto appetitosa che si vorrebbe non abbandonarla mai, conosciuta attraverso Margherita Giacobino, altra scrittrice che incanta con le sue storie di formazione femminile. E Marion Zimmer Bradley almeno per quelle nebbie di Avalon che mi hanno stregata per una stagione, Elizabeth von Arnim con le sue donne in viaggio, l’esilarante e cattivissima Alina Bronsky. Madame de Ségur che ho trascurato nel resoconto delle mie letture infantili, importantissima invece con i suoi bravi bambini che si scambiano visite tra castelli, zuavi volonterosi e generali russi. E Karin Michaelis che ha inventato Bibi bambina del Nord, Selma Lagerlöf, le sue oche selvatiche e le leggende antiche, Matilde Serao e i giocatori del lotto compulsivi e disperati, Valeria Amerano che è ancora poco conosciuta e meriterebbe molto di più. I terribili abitanti delle montagne di Paola Drigo. Anilda Ibrahimi per la sua rossa sposa. E ce ne sono sicuramente altre che per il momento non ricordo, ma ce ne sono di certo molte che ricordo benissimo ma non hanno significato per me, per ignoranza o perché non mi dicono niente. Questa è solo una lista improvvisata e molto, molto personale. Se le dimenticanze sono clamorose, di quelle che ti vengono in mente di notte e devi correre a riparare all’omissione, le aggiungerò. Se no, questa è il mio modesto contributo alla giornata della donna.               

mercoledì 7 marzo 2012

Kazuo Ishiguro, Notturni


Che bella raccolta di racconti questi Notturni di Kazuo Ishiguro! Mi hanno riconciliato con l’autore che, devo dire, con Non lasciarmi mi aveva tirato un colpo basso. Qui ci sono cinque storie che si dipanano intorno alla musica e alla difficoltà dei rapporti tra uomo e donna. Alla fragilità dei matrimoni. Alla differenza tra ciò che siamo e ciò che crediamo di essere, tra ciò che vogliamo e ciò che riusciamo a essere. Alle parole che sprechiamo nell’illusione di dirci qualcosa. 

E malgrado gli argomenti sono anche molto spassose, il tono è leggero e distaccato, gli ambienti tratteggiati in modo vivido, i dialoghi naturali. Pensare che Ishiguro è uno dei pochi autori che sia riuscito a farmi lacrimare, per di più in luogo pubblico, cosa di cui mi sono vergognata caldamente e che non gli perdono tanto. Per la cronaca si trattava del finale di Quel che resta del giorno, io ero seduta in un caffè all’aperto di Diafani, nell’isola greca di Karpathos, c’era parecchia gente in giro e gli occhiali neri non sono bastati a nascondere le lacrime che mi gocciolavano giù. 
Altri suoi libri, a parte il già citato Non lasciarmi sul quale mi astengo, non mi hanno colpita particolarmente e me li ricordo poco. 

Nel primo racconto, Crooner, un musicista di un’orchestra da caffè in Piazza San Marco a Venezia incontra un famoso cantante giunto a una svolta nella sua carriera, e impara che certe volte nemmeno l’amore basta a tenere insieme due persone. Come rain or come shine è l’esilarante e malinconica fotografia di un matrimonio che si barcamena tra disperazione e incapacità di vedere più in là del proprio naso, e di un’amicizia altrettanto miope, rassegnata e bislacca. In Malvern Hills troviamo di nuovo una coppia di sposi vista attraverso gli occhi di un musicista distratto e egocentrico, che preferirebbe molto non sapere niente di quello che è costretto a ascoltare. Notturno è la più bizzarra, e anche la mia preferita: un musicista abbandonato dalla moglie si sottopone a un’operazione assurda, trascorre la convalescenza in un albergo di gran lusso, incontra un’attrice squinternata ma il suo testardo rifiuto di accettare la realtà disperde quel po’ di calore che si era creato tra di loro. In Violoncellisti un suonatore da caffè racconta la storia di un’altra stralunata coppia di musicisti, un giovane ungherese e una matura americana, che nasconde una sorpresa di quelle che fanno ridere e lasciano un po’ d’amaro nel cuore. 

Bei racconti, ripeto, capaci di mantenersi sul filo del rasoio di una narrazione distaccata eppure di sottile pathos. Bella traduzione di Susanna Basso.