martedì 31 luglio 2012

Jeet Thayil, Narcopolis

Dedicata a Bombay, la Narcopolis del titolo, questa è la prima opera narrativa di Jeet Tahyil, poeta e musicista nato in Kerala nel 1959 che attualmente vive a New Delhi. Non mi capita sovente, ma finendo questo romanzo mi è venuta voglia di rileggerlo subito. Non solo perché è bello (molto) ma per ricostruire i nessi sotterranei che collegano i personaggi, le corrispondenze e i rimandi che lo percorrono tutto. Non a caso uno dei temi  è lo scambio dei sogni, che passano dall'uno all'altro personaggio; e un altro, la dipendenza dalle droghe, passa attraverso l'amore, l'affetto e l'amicizia.

La storia inizia alla fine degli anni Settanta, in una fumeria d'oppio frequentata dall'io narrante, rispedito in India dagli Stati Uniti dove l'hanno sorpreso a comprare droga. Rashid, musulmano osservante con due mogli e un certo numero di figli che vivono al piano di sopra della fumeria, anche lui oppiomane, ne è il padrone e nume tutelare; Dimple, bella e femminilissima, è la principale sacerdotessa del rito della pipa. La sua storia costituisce il nucleo della narrazione; nata maschio, ceduta dalla madre perché diventasse hijra (eunuco) quando era bambina, è stata castrata a otto o nove anni, ha vissuto per una quindicina d'anni in un bordello di hijra, è stata iniziata all'oppio da mr Lee, ex ufficiale cinese. Questo è forse il personaggio più debole, con il suo passato di ufficiale dell'esercito maoista rifugiato in India per sfuggire alle purghe e la trucida storia dei suoi genitori, madre fervente comunista e padre scrittore dissidente. Poi c'è Rumi, hindu d'alta casta reietto e violento, Salim galoppino del trafficante di coca Lala e suo giocattolo sessuale, Bengali il vecchio contabile della fumeria e altri che compaiono e scompaiono come fantasmi. Poi ci sono i fantasmi veri, i morti che vivono solo nel ricordo di chi hanno amato, e la nostalgia, il passato, la droga che accoglie e dà pace come l'amore di una madre, fa dimenticare la solitudine e il dolore.

Ognuno dei personaggi ha qualche ferita profonda che può essere risanata solo con la droga, sempre di più. C'è il tradimento, quello che fa male solo a chi lo commette, e il rimorso, l'amicizia che si rinnega davanti alle difficoltà e la capacità di trasformarsi facendo propri i sogni altrui. Soprattutto c'è Bombay, la città che ha cancellato il proprio passato cambiandosi il nome e alterando chirurgicamente la propria faccia, la stessa città in cui hindu e musulmani vivono fianco a fianco condividendo miseria e crimini, ma nei giorni del furore si uccidono senza motivo e senza pietà. C'è la religione, anzi le tante religioni e i tanti dei che brulicano nelle teste e nei templi degli abitanti della città. E poi arriva l'eroina dal Pakistan e spazza via i rituali, la pipa, la lentezza, i sogni. Il mondo delle fumerie d'oppio sparisce, prima distrutto dall'eroina poi sostituito dalla cocaina, droga della modernità. Per alcuni c'è il ricupero, per altri la rovina, i più perdono l'anima e nessuno ne esce indenne. Il romanzo ha un finale circolare in cui l'io narrante torna a Shuklaji Street, ma al posto della fumeria di Rashid c'è un ufficio pieno di computer, il figlio di Rashid è diventato musulmano integralista e spaccia coca in grande, McDonald's e shopping arcade hanno sostituito i bordelli e le catapecchie. Dolori e sogni ci sono sempre, ma devono trovare sollievo altrove.

E infine un ricordo personale: la prima volta che sono andata in India, nel 1977, un amico che adesso non c'é più aveva promesso di portarmi in una fumeria d'oppio a Bombay. Una storia di voli spostati ci impedì di realizzare il progetto. Mi piace pensare che la sua scelta sarebbe stata la fumeria di Rashid, allora al culmine del successo.
Pubblicato lodevolmente da Neri Pozza con traduzione dall'inglese di Vincenzo Migiardi,

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