sabato 29 dicembre 2012

L'antinostalgia: Francisco García Pavón, Le sorelle scarlatte



Nell’onda della nostalgia si potrebbe inserire anche questo Le sorelle scarlatte, che ho acquistato senza premeditazione, attirata dal bellissimo titolo e dall’altrettanto bella immagine di copertina (per quanto straimitate le scelte di Sellerio rimangono sempre inimitabili). Nulla sapevo di Francisco García Pavón (Tomelloso 1919 – Madrid 1989), inventore del Capo della Guardia Municipale di Tomelloso nella Mancia, Manuel Gonzáles detto Plinio, per cui mi sono trovata senza preavviso in un mondo assolutamente insospettato. La prima edizione spagnola è del 1969, quella italiana del 2010 (ignoro se ce ne siano state di precedenti e non ho voglia di andare a verificare). Ma la distanza tra il mondo di oggi e quello descritto nelle Sorelle scarlatte è molto, molto di più di quarant’anni, potrebbe essere di cento e non ci sarebbe niente da stupirsi. Plinio, che ha acquisito fama in alcuni casi risolti in precedenza, viene chiamato a Madrid per fare luce sulla scomparsa di due anziane gemelle, dette scarlatte in quanto rosse di capelli, che hanno trascorso la giovinezza a Tomelloso. Si porta dietro un veterinario-Watson, don Lotario, alloggia in un albergo dove vanno i tomellosani in trasferta, frequenta un caffè vicino alla stazione degli autobus dove i tomellosani emigrati cercano facce note in arrivo dal paese, incontra a ogni piè sospinto altri tomellosani che hanno affari da sbrigare nella capitale, come il Faraone, produttore di vino come tutti i gli abitanti del paese mancego. E la contrapposizione città-campagna, come quella modernità-vita secondo le tradizioni, è uno dei leit-motiv del romanzo, ma non il più importante né il più significativo. Anche Madrid, per dirla tutta, non sembra proprio una metropoli avveniristica, malgrado Plinio lamenti il traffico, l’indifferenza reciproca dei madrileni, la fretta che impedisce di vedere chi passa accanto, o registri fenomeni che lo colpiscono, come una coppia mista: Entrò un negro giovane e bello con una spagnola piccola dalle gambe storte. Se ne stavano molto appiccicati. Ordinarono da bere. Sembrava che la negra fosse lei. La vicenda va avanti lentissima con una moderata accelerazione finale, Plinio può tornarsene al paese a festeggiare una nuova vittoria, non c’è tragedia ma dramma sì, e anche commedia, e persino qualche sfumatura di farsa. Ma il mistero della scomparsa per Garcia Pavón è solo un pretesto per costruire uno spaccato sociale e perché Plinio possa esplorare luoghi e personaggi. Lo straordinario appartamento delle gemelle, immenso e carico di particolari bizzarri e macabri, lo chalet di Carabanchel e la campagna che diventa periferia, i caffè enormi e affollati, il panorama lontano di Madrid, un tempo città di provincia, fra il castigliano e l’orientale, con un non so che di malcelata povertà, mentre invece i grattacieli che oggi spezzano questo mediocre paesaggio urbano appartengono a un altro mondo, ad altre concezioni del tutto estranee a ciò che c’era prima: chiese, palazzi o strade galdosiane. Sono un nuovo manifestarsi della povertà e della mancanza di gusto, perché lo spagnolo oscilla sempre tra il conservatorismo più tetro e l’improvvisazione pazzoide. Le gemelle scarlatte, nubili, da tutti definite “pulite, pulitissime” e “delle sante”, la portinaia e la cameriera, “tipi” quasi da commedia dell’arte, gli studenti sgavazzoni con le straniere facili, il repubblicano sconfitto, la vedova scaltra e calda, soprattutto il Faraone, portatore e teorico di un vitalismo tanto eccessivo da essere quasi mortuario, da banchetto funebre. E d’altra parte di morte e di morti, anzi con i morti, si parla sovente in questo libro, non i morti ammazzati del poliziesco ma quelli familiari e quotidiani che si accumulano sulle spalle di chi continua a vivere. Le donne se sono vecchie sono ridicole, se sono moglie e madri sono angeli, se sono sul limite ambiguo dei "quasi cinquan'anni" sono smaniose e libertine, mentre le ragazze sono esibizioniste e facilmente imbabbionabili. Molti sono i temi d’interesse che vengono portati alla luce dalla ricerca di Plinio, primo fra tutti la ferita mai rimarginata della guerra civile, e le sue terribili conseguenze sulla vita degli individui oltre a quella del popolo spagnolo in toto. Il romanzo è stato scritto e pubblicato in epoca franchista, nessun vento di fronda lo attraversa, i personaggi si presentano dicendo “sono sempre stato di destra” come patente di buona condotta, e se non l’avessi letto nella bibliografia di García Pavón niente mi avrebbe potuto far sospettare che sia uscito nel 1969. Vi circola un’aria viziata di appartamenti e caffè pieni di fumo e di sentori di cucina, di scantinati mal aerati, non si sta mai all’aperto, al massimo in cortile o sulla soglia di casa. Lascia un gusto di vino rosso spesso e di cacciagione con intingoli molto gustosi, lascia soprattutto il contrario della nostalgia per quei tempi. Grazie al cielo che non sono nata lì né allora. García Pavón è un ottimo scrittore, un giallista sui generis, portato alla riflessione su ogni aspetto della vita e con l’ambizione di dipingere un quadro sociale, il che gli riesce benissimo. Ma è portatore di una mentalità terribilmente legata a modelli di virilismo, maschilismo, antimodernismo, chiusura, che ora fanno arrossire persino a leggerli ma lui esprimeva senza pudore, senza filtri, come se il resto del mondo fosse già così oltre che non riusciva neppure a vederne il didietro in fuga. Io raccomando vivamente Le sorelle scarlatte, è un  libro che si legge bene, può indurre alla riflessione come è successo a me, ma è non necessario per trarne godimento. In ogni caso non perdetevi le pagine 163-164 che mi piacerebbe citare in toto perché rappresentano un’anomalia storica, una teoria sulla natura della donna fuori tempo massimo che fa quasi tenerezza per il candore con cui è esposta. Mi limito a queste poche righe: Le donne sono la terra stessa fatta persone, sempre a rasentare il piatto, il lenzuolo, il sangue e il latte. Sono la nostra coperta, il nostro grumo di sangue, placenta, pesce, cacchetta di neonato, coperta, benda, lavacro; carne fatta figura che rasenta la terra. […] Noi camminiamo, la testa piena di pensieri ambiziosi, astrazioni, musica purissima, assoluto, ma sempre sotto o sopra di loro, sempre al ritmo delle loro natiche e del loro fiato, dei loro lenti sacrifici, del loro zuru-zuru che ci incatena a questa povera terra su cui viviamo per un po’ nel mondo. Ahi Francisco García Pavón. Ti sia lieve la terra e grazie per avermi fatto fare una risata sincera leggendoti a pgg. 163-164 dell’edizione Sellerio, e avermi fatto provare l’emozione dell’antinostalgia.
L’ottima traduzione di Maria Nicola conserva una gustosa patina d’antan che contribuisce molto alla gradevolezza della lettura.       

domenica 23 dicembre 2012

Nostalgia canaglia: Rudyard Kipling e Downton Abbey, Ivo Andrič e l’infanzia, Edmondo De Amicis e le bambole



Io non sono una che si commuove sui bei tempi andati, non rimpiango né l’infanzia (dio mi scampi)  né le cameriere in crestina e guanti né i valori perduti né quando la vita era più semplice ecc ecc (dio mi scampi il doppio). Mi piace abbastanza quello che mi vedo in giro e mi secca tantissimo pensare che da un certo momento in poi, senza scomodare la fine del mondo, mi perderò un sacco di novità e cambiamenti. Però mi piace sbirciare in altri tempi come mi piace sbirciare in altri luoghi, e l’occasione di questo post sono le tre ultime letture che ho fatto, fortemente connotate al passato e in grado di scatenare nostalgie di vario tipo.
Rule Britannia. Sto seguendo con molto piacere il serial Downton Abbey, ottimamente fatto e pieno di attori così bravi che sembra impossibile non siano tutti star galattiche. Quest’estate ho letto le memorie di una cuoca inglese, Below stairs di Margaret Powell (ora pubblicato da Einaudi Stile Libero, con il titolo di Ai piani bassi, traduzione di Carla Palmieri e Anna Maria Martini), sul mondo delle grandi case viste dal seminterrato; adesso è stato il turno di un libro di Rudyard Kipling, The eyes of Asia, quattro racconti ambientati durante la prima guerra mondiale e pubblicati nel 1918. Non so se siano stati tradotti in italiano; non sono riuscita a trovarne notizia come libro a sé stante, ma probabilmente sono presenti in qualche collettanea di racconti. Se leggete in inglese e avete un Kindle, li potete scaricare aggratis su Amazon. Riportano all’atmosfera e al momento storico raccontato in Downton Abbey, un momento in cui l’impero britannico era ancora ben lontano dal disfacimento, l’orgoglio e il patriottismo riempivano tutti i petti e la guerra li esaltava. Il buon Rudyard, solitamente ottimo scrittore di racconti (leggete Plain tales from the hills e i racconti dell’orrore tipo il celeberrimo Il risciò fantasma, oltre che L’uomo che volle farsi re e altri; per non parlare di un romanzo come Kim, pieno di ammirazione e conoscenza dell’India) si abbandona qui al suo penchant  per il colonialismo e l’imperialismo dando voce a quattro soldati dell’esercito britannico, tre indiani e un afgano, sikh e musulmani ovviamente, gli indù non erano buoni soldati per il Raj, che scrivono ai famigliari in patria. Uno, ferito, è ospite di una magione nobiliare trasformata in convalescenziario militare: l’esatta situazione di Downton Abbey. Gli altri si trovano in Francia, alloggiati presso famiglie locali che li trattano come figli, le padrone di casa si preoccupano di quello che mangiano, che siano ben coperti, che i loro vestiti siano puliti e disinfestati. Tutti si stupiscono di come sono ben trattati (non faccio niente e nessuno si arrabbia con me! gli inglesi scrivono le lettere per me sotto dettatura come se fossero scrivani da bazar! le donne sanno leggere e scrivere! i bambini non portano gioielli così nessuno li assale per derubarli, vanno a scuola, portano le bestie al pascolo! persino i cani si rendono utili badando alle bestie, ecc ecc), sono pieni di ammirazione per il livello di civiltà che li circonda, per come sono ben coltivati i campi, perché la gente non bisticcia e non mente (mah!!! intanto sono lì per una guerra che è un massacro, e mi pare un po’ peggio di una lite tra compaesani), si commuovono per la morte sotto le bombe di una piccina tanto vivace e graziosa. Insomma, gli occhi saranno pure quelli dell’Asia ma il ventriloquo che fa parlare i personaggi è un europeo convintissimo della sua superiorità (la cosa curiosa è che molta di questa ammirazione asiatica è dedicata ai francesi, solitamente non proprio oggetto di stima per gli spocchiosi inglesi). Perché leggerlo? Perché letto con gli occhi dell’Europa, e di oggi, è divertente e molto istruttivo. Perché anche voi state seguendo Downton Abbey (e se non lo fate, non sapete che cosa vi perdete). Perché è un atto di presunzione che può far riflettere anche oggi, che moltissimi “occhi dell’Asia” ci osservano tutti i giorni da molto vicino, e sicuramente non sono benevoli e pieni di ammirazione come quelli di Kipling.   
Seconda tappa nel mondo della nostalgia, i racconti di Ivo Andrič Litigando con il mondo. Ragazzi che giocano nell’indimenticabile Vişegrad di Il ponte sulla Drina, e studiano a Sarajevo. Ragazzi che vivono un’infanzia di una libertà nemmeno immaginabile per quelli di oggi chiusi sempre in spazi protetti, siano le loro stanzette piene di giochi o le palestre, i campi sportivi, le aule scolastiche, le macchine, ecc. Questi racconti, scritti tra il 1936 e il 1958, colgono i giovani protagonisti nel momento in cui si scontrano con un particolare della vita che non capiscono: questo li costringe a interrogarsi, a fare uno sforzo per appropriarsi di un pezzetto di comprensione in più, e in questo processo inevitabilmente crescono. Sono anche interessantissimi spaccati di vita in un paese sempre in bilico tra Europa e Oriente, e ancora di più tra modernità e un modo di vivere immobile, antico, ormai decisamente esotico per il lettore moderno. Leggete a questo proposito Il Panorama, in cui il protagonista viene completamente stregato da una sorta di lanterna magica che presenta scene di vita da tutto il pianeta, e si forma una sua idea del mondo in cui vive a partire da quelle fotografie, immaginando anche la vita futura dei personaggi che vi appaiono, in una vertigine immaginativa che lascia senza fiato. O La gita e La torre, dove i giochi si svolgono in scenari gravidi di passato e di storia ormai incomprensibili ma pur sempre carichi di significato emotivo. E le mamme di oggi rabbrividiranno al pensiero dei loro figli intenti nei passatempi descritti in Sulla riva, dove i bambini attraversano a nuoto la Drina avanti e indietro finché non fa troppo freddo per continuare: […] La fredda acqua verde scuro, ricoperta dalle ombre del crepuscolo, li accolse facendoli rabbrividire, mentre la corrente trascinava via i loro corpi leggeri, stanchi e affamati dopo tanti bagni. Ma loro opponevano resistenza, nuotavano, lanciando strilli per il freddo e dirigendo gli sguardi verso la riva illuminata. Altro motivo di nostalgia, oltre a quello che scaturisce dalla descrizione di un mondo che non potremo mai conoscere perché sparito ormai da troppo tempo, è la scrittura elegante, calma, preziosa, capace di raccontare storie infantili senza venire meno alla sua perfezione. E poi, ricordo il piacere provato quando ho letto Il ponte sulla Drina, uno di quei libri che mi hanno aperto il cuore e la mente come un mio personale Panorama. Ancora adesso certi libri mi rapiscono ma non ho più i vent’anni di allora e non è più la stessa cosa. Ricordo anche che lo imprestai a un mio moroso del tempo (mi è sempre piaciuto condividere i libri che amo molto) magnificandoglielo, e quello quasi mi strozzò perché la scena iniziale del romanzo è un impalamento molto minuzioso, assai migliore di quello descritto da Mo Yan in Il supplizio del legno di sandalo. Mai capiti quelli che rabbrividiscono virtuosamente per le scene di violenza, sesso, perversione ecc nei libri. Son parole, mica fatti, se son ben scritte leggerle è un piacere, se sono brutte non fanno impressione perché falliscono il loro scopo, no? Mah. Comunque, quello dopo pochissimo mi ha mollata. 
L’ultima nostalgia letteraria per oggi è suscitata dalla lettura del racconto di Edmondo De Amicis Il “Re delle bambole”, Sellerio 1980, non credo che riuscirete a trovarlo, io ho avuto la fortuna di scovarlo nella nuova libreria Il Ponte sulla Dora in via Pisa, a Torino. E qui la nostalgia è privatissima, e si è scatenata quando ho aperto la prima pagina e ho letto Così lo chiamano molte delle sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini, inventore, fabbricante e negoziante di bambine inanimate, che ha la bottega in via Roma. Quel nome, Bonini, mi ha riportata di gran corsa alla mia infanzia in cui uno dei piaceri più grandi, concesso con magnanimità ogni volta che si passava nei paraggi perché assolutamente privo di rischio economico, era andare a vedere le vetrine del negozio di giocattoli Bonini, in piazza Solferino. Santissima ingenuità della mia età bambina. Mai mi sarebbe venuto in mente che qualcuno di quei tesori in vetrina avrebbe potuto diventare mio, erano inattingibili, al di là di qualsiasi rapporto con la realtà. Puro regno del desiderio e del sogno. Mi bastava sognare, e anche adesso mi piace tantissimo guardare con desiderio vetrine cariche di tesori che non possiederò mai e non desidero neppure possedere. Be’, per tornare a De Amicis, questo breve racconto, quasi più un articolo-intervista che una narrazione, è molto godibile anche se non indimenticabile. Lo scrittore si bea della vista delle bambole e dal giocattolaio si fa raccontare delle sue piccole clienti, come si comportano per ottenere le bambole di cui si sono incapricciate, dell’amore che le lega a quel mondo anche quando sono cresciute, e per parte sua si lascia andare all’immaginazione facendosi trascinare in una ridda di creature meccaniche un po’ buffe un po’ inquietanti. Con tono amabile e sotteso di ironia, fatica a allontanarsi dalla bottega e confessa alla fine della visita Insomma… mi divertivo. Non ho ben capito la postfazione di Carlo A. Madrignani, che vuol vedere in questo resoconto discorsivo e sorridente un sottofondo di inquietudine. Io ho giocato furiosamente con le bambole, ne ho amate alcune di un amore appassionato, e non ho mai perdonato a mia madre che a mia insaputa una volta ne ha fatto un bel sacco e le ha regalate alle suore dell’oratorio. Va be’, storia passata, ma ancora mi si torce lo stomaco a pensarci. Ora, la nostalgia nasce anche dal fatto che il negozio di Bonini ha chiuso di recente. Certo, ci sono effetti della crisi molto più pesanti, ma questo non glielo perdono. Non ci sarà mai più nessuna vetrina come quella.  

giovedì 13 dicembre 2012

Progetto Alga - premiazione del vincitore 2012 e presentazione finalisti 2013

Allora, finalmente martedì 18 dicembre 2012 alle 18,30, al Circolo del Lettori di Torino, in via Bogino 9, ci sarà la premiazione del vincitore dell'edizione Alga 2012 e la presentazione presentazione dei cinque nuovi autori Alga e dei loro libri. Saranno presenti tra gli altri Francesco Gallo, Valeria Amerano, Marisa Porello, Silvestro Catacchio, Mariagrazia Nemour, Carlo Bertolini e Claudia Manselli, oltre alla sottoscritta, a Antonella Parigi e ovviamente Alessandro Pradelli, cioè l'ideatore e realizzatore del Progetto. 
Nel caso che qualcuno avesse dimenticato di che cosa si tratta (ma nessuno che sia passato nei miei paraggi negli ultimi tre anni è stato risparmiato! non parlo d'altro e non faccio altro che occuparmene), il Progetto Alga è una scommessa vinta con onore: tre anni fa un gruppo di giovani ardimentosi mise su questa piccola casa editrice, copletamente autofinanziata, che gestisce un Premio letterario che pubblica cinque libri (in versione sia cartacea che digitale) scelti tra i manoscritti arrivati alla giuria. I libri poi vengono commercializzati fuori dai canali commerciali tradizionali, saltando la trafila della distribuzione, in negozi partner e eventi vari, al prezzo incredibile di 3 €. La prima edizione è stata vinta da Claudia Manselli con L'orologiaio, vedremo martedì chi ha vinto la seconda e quali saranno i candidati per la terza. Altra caratteristica del Progetto Alga è il coinvolgimento degli autori pubblicati nel comitato di lettura dei testi dell'edizione successiva, contrbuendo così a creare una sorta di comunità di scrittori e lettori molto stimolante e simpatica. La formula ha funzionato benissimo, superando le difficoltà che la situazione attuale crea a imprese assai più esperte e solide, e Alga procede con il vento in poppa. 
Martedì al Circolo del Lettori avrete l'occasione di conoscere un'iniziativa nuova e vincente, molti autori interessanti, parecchi bei libri (ormai sono quindici quelli scelti per la pubblicazione, più uno fuori concorso), e di procurarvi ore di lettura appassionante e regali natalizi che vi faranno fare un'ottima figura a un prezzo veramente imbattibile, il che di questi tempi fa piacere.     

mercoledì 12 dicembre 2012

UN RACCONTO DI NATALE ALLA MODA DI UNA VOLTA



Il salotto della vecchia casa sembrava veramente l’illustrazione di un libro per bambini: le tende tirate, il camino acceso, le decorazioni natalizie tutte verde, rosso e oro, la tavola preparata e i mucchi di regali distribuiti in giro, ognuno con il nome del destinatario scritto su di un bigliettino; c’erano anche una nonna e dei nipotini, che aspettavano impazienti il momento di aprire i pacchi. La nonna veramente non aveva i capelli candidi, ma bruni e tagliati alla moda; i nipotini erano tutti belli, biondi e con le guance lustre.
– Nonna, raccontaci una storia, – disse il più grande dei bambini, che aveva un mucchio di riccioli e si chiamava Luchino.
La nonna lo guardò perplessa: non aveva mai raccontato storie ai nipoti, e per quel che ricordava, nemmeno ai figli. Ma è difficile sottrarsi all’atmosfera natalizia, per cui rispose:
– Va bene, vi racconterò una storia, così almeno la smetterete di girare intorno ai regali; sapete benissimo che non si possono aprire finché non arrivano i vostri genitori. Che storia volete? Una che sapete già oppure una nuova?
– Una che sappiamo già, – gridarono i più piccoli.
– Una nuova, – disse Luchino.
– Allora ve ne racconterò una nuova, fatta apposta per voi, – disse la nonna. – Sarà molto più divertente.
C’era una volta un papà che lavorava in banca, e una mamma che lavorava in casa, faceva i dolci, le patatine fritte, i letti, e i bambini. E di bambini ne aveva fatti tre: due femmine e un maschio. Le femmine erano bionde, il maschio era bruno. Anche la mamma era bionda, e il papà era bruno. Una mattina, all’ora di andare a scuola, la bambina più grande, che si chiamava Mara, disse ai suoi fratellini:
“Io devo andare in cartoleria a comperare un quaderno; ci vediamo a scuola”.
A scuola Mara non si vide per tutta la mattina, e all’ora di andare a casa i due bambini più piccoli se ne tornarono da soli. La mamma, quando vide che Mara era scomparsa, si preoccupò molto; fece un mucchio di telefonate, uscì a cercarla, andò persino alla polizia; ma i fratellini erano abbastanza contenti, perché Mara era una spiona, le sue pagelle erano sempre molto più belle delle loro, e non si sporcava mai.
Mara non ricomparve più. Qualche giorno dopo, tornando da scuola, i due fratelli incontrarono una bambina che le assomigliava moltissimo. Solo che Mara aveva la frangetta, i capelli lisci, gli occhiali e la macchinetta per i denti; questa bambina invece aveva i capelli sparati, i buchi alle orecchie con due piccoli orecchini di brillanti, un giaccone imbottito rosa fragola tutto coperto di spillette di band mai sentite.
“Sei Mara?” le chiesero i bambini.
“Ma va’ là, scemi, io mi chiamo Myra, con la ipsilon,” rispose lei, “non vedete come sono diversa da Mara, che portava sempre la felpa di Hello Kitty e i fermagli in testa? Io ho le scarpe da trecento euro, e poi voi il sabato pomeriggio andate sempre con il vostro papà in centro a mangiare le paste in pasticceria, io invece vado al bowling, o in discoteca con il mio ragazzo che ha il motorino”.
I due bambini rimasero con la bocca spalancata per dieci minuti, poi se ne tornarono a casa mogi; ma alla loro mamma non dissero niente.
Passarono degli altri giorni. Una mattina mentre tornavano da scuola, il bambino, che si chiamava Nicola, lasciò la mano della sua sorellina davanti a un semaforo verde e le disse:
“Tu comincia ad attraversare; io devo tornare indietro a cercare il berretto che mi è caduto”.
La bambina attraversò, e si fermò dall’altra parte della strada ad aspettare il fratello. Passarono i minuti, passò mezz’ora e Nicola non si vedeva. La bambina incominciò a piangere. Un signore gentile si fermò e le chiese:
“Perché piangi, piccola? Come ti chiami?”
“Mi chiamo Cecilia,” disse lei, “e piango perché mio fratello è andato a cercare il suo berretto, mi ha lasciata qui e non è più tornato. Io sono piccola, non so la strada per tornare a casa, ci sono tanti semafori e non mi ricordo mai se si passa col rosso o col verde”.
Il signore gentile chiamò un vigile che accompagnò Cecilia a casa; per la seconda volta la mamma si agitò moltissimo, fece un mucchio di telefonate e andò alla polizia, ma di Nicola non si seppe più nulla. Cecilia era contentissima. Nicola le faceva sempre i dispetti, la faceva piangere e qualche volta le tirava delle sberle; e siccome lei era piccola, adesso la mamma la accompagnava tutti giorni a scuola e la andava anche a prendere.
Una mattina, mentre, seduta su una panchina dei giardinetti davanti alla scuola, aspettava la sua mamma che era in ritardo, Cecilia vide un bambino che assomigliava moltissimo a Nicola. Era un piccolo zingaro e il suo collo era così sporco che sembrava portasse una sciarpetta nera.
“Ti chiami Nicola?” gli chiese Cecilia.
“No di certo,” rispose lo zingarello, “mi chiamo Mirko, con la cappa, non so leggere né scrivere, non vado mai a scuola, rubo nei negozi e chiedo l’elemosina facendo finta di essere un bambino scappato di casa. E se la tua mamma non arriva presto a prenderti, ti rubo la cartella, ti strappo tutti i quaderni e poi vado a vendere i tuoi libri di scuola come carta straccia”.
Cecilia scoppiò immediatamente in lacrime; ma quando arrivò la mamma, non volle dire perché piangeva.
E adesso, bambini, – disse la nonna rivolgendosi ai nipotini che non avevano mai fiatato mentre lei parlava e alcuni dei quali avevano i lucciconi, – come la facciamo continuare questa storia? Facciamo scomparire anche Cecilia?
– No no, – gridò una bambina, la più piccola e la più bionda, – io lo so un bel modo di fare finire la storia. Cecilia, il suo papà e la sua mamma vanno a fare una gita. Partono con la macchina e si portano i panini, e la coca-cola per Cecilia. Papà e mamma si siedono davanti e lei dietro con le sue bambole. Vanno sull’autostrada e a un certo punto c’è un tunnel. La macchina entra nel tunnel col papà, la mamma, Cecilia, la coca-cola, i panini e le bambole, e non esce mai più dall’altra parte. E così la storia è finita.
– Sì, mi piace, – disse la nonna, – è un bel finale, ma ce n’è ancora un pezzo.
Intanto, il loro appartamento era rimasto chiuso. Sui mobili lucidi si depositava la polvere, sui pavimenti tirati a cera si formavano quei riccioletti contro cui la mamma di Cecilia aveva sempre combattuto vittoriosamente. Nei lavandini l’acqua sgocciolava formando delle macchie marroni che ammuffivano; e da sotto l’acquaio in cucina uscivano lunghe file nere e silenziose di scarafaggi. Le tapparelle rimanevano abbassate e dopo un po’ un gruppo di zingari che giravano nella zona si accorse che quell’appartamento era disabitato, così decisero di svaligiarlo.
Forzarono la serratura con un piede di porco, entrarono in due o tre e portarono via tutto quello che si poteva trasportare: la televisione, lo stereo, il computer, il Nintendo dei bambini, le catenine della prima comunione, la pelliccia della mamma e persino la macchina foto subacquea e la radiosveglia di papà. Con gli zingari c’era anche un bambino - e non vi dico che collo sporco aveva! - che aprì un armadio nell’entrata, e prese una racchetta da tennis, un pallone e uno skate-board.
Nessuno vide i ladri andarsene, e quando il portinaio si accorse della serratura scassinata, chiuse la porta con un po’ di scotch e non si preoccupò granché, tanto i padroni di casa non si erano più visti da molto tempo. Qualche giorno dopo, il ragazzino zingaro, facendo un giro con lo skate-board sul marciapiede attorno all’isolato, andò a sbattere contro una bambina con i capelli tutti ad aculei e gli orecchini di brillanti. La bambina riuscì a non cadere per miracolo e spalancò la bocca per piantare un urlo: ma quando vide in faccia il bambino, la richiuse in fretta per reprimere un sorriso. Poi, con una strizzatina d’occhio, corse a salutare un altro bambino che se ne stava seduto sul suo motorino fermo, poco lontano.
E questa volta la storia è finita per davvero.
Luchino, con gli occhi celesti gonfi per le lacrime trattenute, stringeva le labbra cercando di controllare il tremito del mento. Quando alla fine riuscì a parlare, protestò con grande energia:
– No, no e no! La storia non è finita per niente così! La macchina è entrata nel tunnel, e dentro era tutto buio ma si vedeva una luce in fondo. La macchina andava molto forte e così è uscita in fretta; la mamma si è girata per vedere se Cecilia stava bene, se non si era spaventata troppo per il buio. E ha visto che Cecilia aveva aperto la sua lattina di coca-cola, e stava bevendo; e vicino a lei c’erano seduti da una parte Mara, e dall’altra Nicola. L’autostrada era finita e c’era un prato bellissimo, hanno fatto merenda coi panini e poi sono tornati a casa; e non c’era nemmeno uno scarafaggio.
In quel momento arrivarono i genitori, e chiesero alla nonna:
– Sono stati buoni i bambini?
– Degli angeli, – rispose lei.
Finalmente si poterono aprire i pacchi e guardare i regali, poi tutti si sedettero a cena e i bambini fecero un gran casino e bevvero persino un po’ di spumante.
Quando fu l’ora di andare a dormire, tutti i nipotini andarono a dare un bacio alla nonna e a ringraziarla per la buona cena, i bei regali e la bella serata; ma Luchino voltò la faccia dall’altra parte e non la volle baciare. E quando fu sulla porta di casa con il cappotto addosso, pronto per uscire, si girò veloce e le tirò fuori la lingua.