domenica 14 luglio 2013

Orhan Pamuk, Il signor Cevdet e i suoi figli: i Buddenbrook a Istanbul, con riserve


Quandoque bonus dormitat Homerus.

Se Il signor Cevdet e i suoi figli fosse il primo libro di Orhan Pamuk che leggo, certamente non correrei a leggerne un altro. Devo confessare che ho fatto parecchia fatica a arrivare alla fine, non sempre ho seguito con attenzione gli interminabili monologhi interiori e le fluviali conversazioni che costituiscono la sostanza del romanzo. Giovanile e ambizioso tentativo di affresco della Turchia dall'inizio del '900 al 1970, mette già in scena tutte le ossessioni dell'autore: il contrasto tra oriente e occidente, tradizione e modernità, libertà e oppressione, luce della ragione e oscurità della superstizione. Scritto tra il 1974 e il 1978, pubblicato nel 1982 (Pamuk è nato nel 1952) con notevole successo, ambientato tra Istanbul, Ankara e nelle campagne dell'Anatolia interna, è anche eccessivamente didascalico, vuole mettere in scena tutte le tendenze, tutti i movimenti e i modi di pensare che hanno percorso la Turchia nell'ultimo secolo. In questo senso non me la sento di esprimere un giudizio, molte cose neppure le ho capite, ma sicuramente per un turco hanno un senso e un interesse.

Quello che non funziona, secondo me, è che non succede mai niente, assistiamo a sfinenti conversazioni, sorbiamo eterni monologhi interiori che dovrebbero farci capire le trasformazioni dei personaggi ma in realtà annoiano. Venendo al dunque: il signor Cevdet, all'inizio del '900 è una rara avis in quanto commerciante musulmano a Istanbul, quando il commercio era in mano a greci, ebrei, armeni e levantini; lavora, è una brava persona, sposa la figlia di un pascià. Compra una casa a Nisantasi. Ha un fratello tisico che muore (fuori scena) e gli lascia un figlio in eredità (che sparisce, ricompare di tanto in tanto, sembra importante ma poi non lo è). Fine anni '30: Cevdet è malato, ha due figli maschi e una femmina, c'è la Repubblica, tutto è cambiato ma tutto è uguale. Di qui in poi la storia in sostanza gira attorno a tre ingegneri: Refik, figlio mediano, e i suoi amici Omer e Muhittin: l'idealista, l'ambizioso e il poeta. Anche loro non fanno granché ma parlano, parlano, parlano, e gli argomenti sono le riforme, il nazionalismo, i contadini, i politici. L'alcol, che ha una grandissima importanza. Tutti e tre si trasformano tradendo i propri progetti e i propri ideali. 1970: Ahmet, figlio di Refik, fa il pittore e dell'azienda di famiglia (gestita da zii cugini ecc) se ne impippa. Parla d'arte e anche un filino della rivoluzione. L'esercito prepara un colpo di stato di sinistra.

Questa maniera ellittica di raccontare, in un romanzo d'impianto e ambizioni tradizionali, secondo me non funziona. Crea aspettative su personaggi che poi abbandona e di cui veniamo a sapere retrospettivamente scelte inaspettate, molla tutto quando comincia a nascere un barlume di interesse, di altri si dimentica completamente. Certo non fa venire i nervi come Il libro nero o La nuova vita, ma è noioso e manca assolutamente della bella scrittura che rende preziosa la prosa di Orhan Pamuk. Ricorda, come temi e attaccamento al realismo e alla politica, La casa del silenzio (che infatti è del 1983), ma è troppo lungo, verboso, ripetitivo, particolareggiato. Le domande di base che tutti i personaggi parlanti si pongono sono: chi sono io? Qual è il senso della vita? e questo già ci fa capire che si tratta di un'opera che pecca insieme di un eccesso di ambizione e di ingenuità, caratteristiche che infatti che l'autore attribuisce ai suoi personaggi. E quando parlo di personaggi intendo quelli maschili, che pur schematici e eccessivamente dediti all'autoanalisi, sono approfonditi, mentre le donne sono sagome opache, non si riesce a vedere attraverso, e sovente non parlano.

Man mano che leggevo continuavano a venirmi in mente I Buddenbrook, e quando sono arrivata alla postfazione dell'autore ho avuto la conferma che era uno dei suoi modelli (insieme a Anna Karenina, ma di questo, confesso, non me n'ero assolutamente accorta). Si può leggere anche come una metafora della Turchia che, liberandosi dell'arretratezza ottomana, abbraccia la modernità (il commercio di Cevdet, le riforme di Rafik, la ferrovia di Omer, l'estremismo di Muhittin), ma sostanzialmente fallisce. Per fortuna Orhan Pamuk forse non ha una gran testa di filosofo ma è un magico narratore e ha abbandonato l'esemplificazione delle idee per la narrazione e le atmosfere, e soprattutto ha dato voce alla struggente nostalgia che pervade le sue opere migliori, da Neve a Istanbul a Il museo dell'innocenza.

Traduzione non indimenticabile di Barbara La Rosa Salim (per esempio dove ha mai trovato "le strilla" che compaiono più di una volta?). Penso che la meravigliosa fotografia in copertina sia di Ara Güler, come quelle che abbelliscono e completano le pagine di Istanbul, ma non ne sono sicura dato che l'ho letto in ebook e non riesco a trovare conferma in rete.
E adesso, dopo ben otto giorni dedicati a Il signor Cevdet e i suoi figli, per una volta mi congedo volentieri da Orhan Pamuk e magari mi tuffo in Petros Markaris o Ersi Sotiropoulos dato che sono nella loro bella patria. Qualsiasi cosa purché sia veloce e leggera.

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