lunedì 12 agosto 2013

Una notte con Barbablu, racconto spaventoso in due puntate:



Una notte con Barbablu – prima puntata
Marina, arrabbiata e infreddolita, guardava con poca speranza la strada di campagna che si perdeva dietro una curva, dove le prime ombre si raccoglievano sotto una fila di pioppi. Quello era proprio un viaggio cominciato male. La sua amica Lauretta, con cui era partita, che cosa aveva pensato bene di fare se non filarsela con un motociclista conosciuto nel primo bar dove si era fermate a mangiare un panino? E non ha nemmeno il casco, pensò Marina. Spero che li fermino e gli diano una multa tale che lei sia costretta a tornarsene a casa stasera stessa. Spero che lui sia un maniaco sessuale e l'abbia violentata e uccisa in un bosco. Si pentì immediatamente di avere pensato una cosa simile e fece mentalmente le sue scuse a Lauretta. La multa era più che sufficiente. Poi quello stupido camionista che ci aveva provato e l'aveva costretta a scendere in piena campagna, nell'unica strada in tutt'Italia in cui passava una macchina ogni mezz'ora. E stava anche cominciando a piovere.
Marina tirò fuori dallo zaino una felpa stropicciata e se la infilò. Di questo passo, pensò, non ci arriverò mai a Tropea, non raggiungerò mai i miei amici, e intanto Davide si troverà un'altra ragazza, le vacanze finiranno, sarà di nuovo l'ora di tornare a scuola, e io morirò di fame e di freddo su questa stupida strada, lontana da ogni centro abitato, lontana dai bar illuminati, dalle discoteche, dalle spiagge, in mezzo alla campagna buia e piena di rumori sconosciuti, e tutto per risparmiare i soldi del treno, che stupidaggine… Un'idea di Lauretta naturalmente, quella aveva sempre idee balzane, chi fa più l'autostop al giorno d'oggi? Avrà visto alla televisione un filmetto degli anni cinquanta, di quelli pieni di straniere bionde con fularino al collo che calano in Italia a pollice in fuori e sposano conti veneziani con la Giulietta rossa. Intanto Lauretta era da qualche parte con il motociclista che era uno studente di Genova carino e simpatico, mentre nessuno sapeva che lei, Marina, fosse lì da sola mentre la notte scendeva, nemmeno i suoi genitori che la credevano sull'intercity per Reggio Calabria.
In quel momento sentì il rumore di una macchina che proveniva da dietro alla curva. Si affrettò a rimettersi in posizione con il pollice teso e un sorriso speranzoso sulle labbra. Veloce ma non troppo, imponente, silenziosa, arrivò una Volvo blu metallizzato che la fece sognare un proprietario ricco, ma dignitoso e affabile. Si fermò. C'era solo il guidatore, un signore sulla quarantina che abbassò il vetro per parlarle.
"Vuole salire, signorina? La posso condurre fino in paese, è meglio che non resti su questa strada isolata a quest'ora".
Con un sospiro di sollievo e un sorriso riconoscente Marina sedette sul sedile coperto da una fodera bianca.
"Avevo paura di rimanere qui fino a domani," disse sistemando lo zaino tra le gambe (prima regola dell'autostoppista, mai mettere i bagagli nel baule, le aveva detto Lauretta) "ma come mai di qui non passa nessuno?".
Il guidatore si mise a ridere.
"E lei, come mai si trova tutta sola in un posto così insolito?".
Lei era tanto contenta di essersi tolta da quella situazione assurda che in due minuti gli aveva raccontato tutta la storia, Lauretta, la compagnia che l'aspettava a Tropea, il motociclista, l'intercity per Reggio Calabria, il camionista dalle mani lunghe, la paura di dover trascorrere la notte all'aperto. L'uomo rideva bonariamente, da adulto comprensivo e interessato.
"Quel camionista l'ha portata un bel po' fuori strada, domani avrà qualche difficoltà a trovare un passaggio. Questi non sono posti di grande traffico".
Parlava gentilmente. Marina si trovò subito a suo agio.
"Mi chiamo Guido" disse ancora l'uomo "e sono medico. Sto andando a casa mia, a qualche chilometro da qui. Domattina andrò a Roma per lavoro. Se vuole posso ospitarla per la notte e darle uno strappo fino a Roma domani."
Roma andava benissimo. Un sacco di treni andavano in Calabria da Roma. Marina pensò che se con ogni probabilità un motociclista di Genova era più divertente, un medico con la Volvo era senza dubbio utile.
"Benone, grazie mille. Meglio di così non poteva andarmi".
Guido le chiese se non potevano darsi del tu, "se no mi fai sentire troppo vecchio" disse. Marina avrebbe giurato che c'era della timidezza nella sua voce. Un tipo veramente simpatico anche se aveva l'età di suo padre, gentile, a posto.
Giunsero davanti a un alto muro di cinta. Guido aprì il cancello di ferro con un telecomando che teneva in tasca, insieme al telefonino e altri aggeggi voluminosi che rovinavano la linea della sua costosa giacca sportiva. Quando imboccarono il vialetto che attraversava il giardino, un doberman grossissimo cominciò a correre davanti alla macchina abbaiando, subito raggiunto da altri due ancora più grossi. Guido sorrise affettuosamente alle bestiacce.
"I miei angeli custodi. Sono ferocissimi, più efficaci di qualunque sistema d'allarme. Ubbidiscono solo a me, sbranerebbero chiunque cercasse di attraversare il giardino. Non c'è pericolo che li avvelenino, perché accettano il cibo solo dalle mie mani e dal guardiano che li accudisce quando sono via. Mi è costato un patrimonio farli addestrare, ma valeva la pena".
Marina guardò preoccupata il muso ringhioso e bavoso proteso contro il finestrino, ma non disse niente. Di fronte alla villa Guido scese prima di lei e le chiese di aspettare in macchina. Urlò un paio di comandi: i cani si accucciarono fremendo ai suoi piedi.
"Ora puoi scendere" disse.
Marina corse in fretta su per i gradini che conducevano alla porta d'entrata. Guido aprì con tre chiavi diverse e si voltò a farle un sorriso.
"Ora disinserisco il sistema d'allarme".
"Le precauzioni non sono mai troppe, eh?".
"Già".
Nel momento in cui la porta fu chiusa i doberman si rialzarono abbaiando e corsero via.
Marina si spiegò meglio le paure di Guido vedendo il lussuoso interno della villa. Desiderò che Lauretta fosse lì, perché era certa che non avrebbe mai creduto  a quello che aveva da raccontare. Un divano di pelle bianca grande come il salotto di casa sua, un caminetto di marmo nero, pellicce di tigre al posto dei tappeti, quadri su tutte le pareti, non una lampadina in vista, eppure la stanza era illuminata a giorno! Tutto l'arredamento, come l'edificio, era modernissimo, molto formale ma anche accogliente, e ordinatissimo. Non un giornale in giro, libri solo su uno scaffale d'acciaio, niente fotografie, grandi mazzi di fiori di giardino sui tavoli.
"Vivi solo?" chiese Marina molto intimidita, usando il tu con fatica.
"Sì, purtroppo". La voce di Guido era bassa, senza colore. "Sono vedovo e non ho figli. Questa casa è troppo grande per me, ma ci sono affezionato. Sono successe tante cose qui e ho messo tanta cura ad arredarla!".
Marina si sentì indiscreta e indelicata e cercò di rimediare ammirando tutto con entusiasmo eccessivo. Guido le dette un buffetto sulla guancia.
"Vieni, andiamo in cucina a vedere se c'è qualcosa in frigo".
In cucina! A Marina parve piuttosto una sala operatoria. Tutto era bianco e talmente pulito che sembrava essere stato leccato da un esercito di gatti. Non c'era in vista neanche un utensile, non una scatola di biscotti, un cestino del pane, una bottiglia d'olio, uno qualsiasi dei mille pasticci che ingombrano solitamente le cucine: solo la superficie scintillante degli armadi e dei ripiani, la perfetta geometria degli elettrodomestici nuovissimi. Ma poi Guido cominciò ad aprire sportelli e cassetti, apparvero piatti cucinati e scatolette attraenti, un intero Saint-Honoré fu estratto dal freezer, la tavola fu apparecchiata con piatti bianchi e posate nere sulla superficie lucida di un bancone di marmo grigio. Guido si dava un gran da fare con l'aria di divertirsi moltissimo.
"Capita così raramente che ci sia qualcuno qui, a mangiare con me," disse, tagliando il fagiano per servire Marina. "Ma forse tu preferivi una pizza o un hamburger!".
Marina fece un risolino mondano.
"Non sono mica una selvaggia. So apprezzare anch'io un piatto raffinato quando lo trovo".
Si sentì scema, ma ormai lo aveva detto.
"Coca-Cola o champagne?".
"Champagne, naturalmente".
Il tappo saltò fino al soffitto e Marina pensò che cominciava a divertirsi davvero. Guido era attentissimo, la serviva con grande gentilezza. Per la prima volta lei si trovava in casa di un uomo affascinante e ricco, trattata come un'adulta che meritava tutti i riguardi. Perché si era resa improvvisamente conto che lui era proprio affascinante, alto e bello com'era, con quella faccia un po' sciupata e quel sorriso triste e lento, quegli occhi azzurri come l'attore americano che piaceva tanto a sua madre… Paul Newman, sì, lei non l'aveva mai visto in un film, solo in fotografia, però doveva essere bello da giovane. Le venne da ridere pensando a Davide che aveva la coda di cavallo e si stava facendo crescere la barba. Davide, proprio! Quello un fagiano non l'aveva mai visto né vivo né morto e per aprire una bottiglia di champagne avrebbe usato il martello.
"Ti diverti?" le chiese Guido.
"Moltissimo” rispose lei già un po' sbronza.
Dopo cena Guido la portò a visitare la casa. C'era solo il pianterreno e un piano superiore, ma le stanze erano molte. Un salone, una cucina, un office (Marina non osò chiedere che cosa fosse un office e la stanza, arredata solo con grandi armadi e un tavolo, non le rivelò niente), un bagno, uno studio, una dispensa-ripostiglio, un alloggio per la servitù costituito da camera da letto, salotto e bagno, e poi al piano superiore un altro salotto, cinque camere da letto ognuna con bagno e spogliatoio, tutto arredato nello stesso stile moderno e accogliente, tutto in ordine perfetto, senza alcuna traccia di occupazione, nemmeno quella che Guido indicò come la propria. A Marina girava la testa, si chiedeva quale delle camere le sarebbe stata assegnata per la notte.
Tornando al piano terreno vide una porta bianca che si confondeva quasi con la parete, vicino alle scale.
"Che cos'è quella?" chiese, desiderosa di non far capire che la visita l'aveva stancata e non vedeva l'ora di stendersi sull'enorme divano di pelle bianca.
"Oh niente! Un ripostiglio, non c'è niente di bello lì dentro".
Sola in salotto, senza più nulla da ammirare, tirò un sospiro di sollievo. Guido era in cucina a fare il caffè.
Mentre bevevano lei si sorprese a guardargli le mani, che erano lunghe e magre, con dita leggere che stringevano la tazza come un fiore delicato. Come avrebbero carezzato una donna delle mani così? Si vergognò un poco di quel pensiero e cercò di pensare a Davide quando la accarezzava, ma le vennero solo in mente le unghie sempre nere per la sua mania di trafficare col motore della motocicletta. Si chiese dove fosse in quel momento. Magari in birreria con gli amici, o sulla spiaggia con una ragazza, più tardi in discoteca, certamente non perdeva tempo a pensare a lei, era un ragazzo così estroverso, così… Si accorse che Guido la stava guardando e arrossì.
"A che cosa pensi?" le chiese.
"A te" rispose Marina.
Gli si avvicinò sul divano, appoggiandosi al suo braccio. Lui posò la tazza e l'abbracciò.
In quel momento, vicinissimo, squillò il telefono. Guido tolse il braccio dalla sua spalla ed estrasse di tasca il cellulare.
"Come?" disse. "Che cosa? Va bene, arrivo".
La guardò con un'espressione buffa, delusa e colpevole.
"Mi chiamano in ospedale. Un mio paziente è peggiorato, devo andare".
Marina sospirò, ma era contenta dell'interruzione.
"Ti aspetto" disse a bassa voce.
"Vai a dormire, se vuoi. Prendi la camera che preferisci".
Ma Marina ripeté:
"Ti aspetto".
"Tornerò il più presto possibile. Ricordati di non uscire in giardino, i cani ti sbranerebbero immediatamente".
Non c'era bisogno di raccomandarlo. Quando lui aprì la porta nel buio scoppiò un abbaiare furioso che smise solo a un secco comando.

2 commenti:

Massimo Citi ha detto...

Questo non l'ho ancora letto. Rimango in attesa del seguito e mi aspetto uno dei tuoi consueti, perfidi e orribili schierzi.

consolata ha detto...

Ehi Max! Non lo conosci ma non sarà una gran sorpresa perché l'idea che qui compare nuda e cruda, l'ho utilizzata in modo più elaborato nel racconto "Alla Rina", ALIA 5. Ma non dirlo a nessuno, mi raccomando ;-)