martedì 24 dicembre 2013

L'Irlanda, i ricordi, la morte e uno scrittore troppo bravo: John Banville, Il mare




Irlanda, ai nostri giorni. Max Morden, non più giovane e non ancora vecchio, vedovo recente, è alla ricerca dei propri ricordi e del proprio passato. Vuole mettere in vendita la casa dove ha trascorso la vita con l’amata moglie Anna e la figlia Claire e torna nel paesino dove passava le vacanze durante l’infanzia, prendendo alloggio nella casa detta Cedars tenuta da miss Vavasour, in cui è l’unico ospite oltre a un colonnello in pensione. In una particolare estate sul finire dell’infanzia Max, di origine proletaria, con una famiglia infelice e disfunzionale, entra in contatto con la famiglia Graces, composta da padre, madre, due figli e una baby sitter. I Graces sono ricchi e hanno affittato la bella proprietà dei Cedars, mentre i Morden stanno in un bungalow estivo senz’acqua corrente né luce elettrica. Dapprima ammirandoli da lontano, poi diventando amico dei bambini, riesce a essere ammesso in un ambiente per lui sconosciuto e lontanissimo dalla sua vita. Di queste vicende l’io narrante ci mette al corrente con un continuo monologo autocentrato su una specie di narcisismo, di compiacimento dell’io e delle proprie minime sensazioni, attraverso una continua epifania dello sguardo e un’esibizione di bravura che presto diventa un po’ stucchevole e claustrofobica. Tutto passa attraverso lo sguardo, quasi non ci sono parole (pochissimi i dialoghi) tra i personaggi. Devo dire che a metà mi trascinavo piena di ammirazione per il virtuosismo, una lievissima curiosità (e in rapida diminuzione) per il dramma che evidentemente doveva scoppiare e una noia, un senso di estraneità in rapido aumento. Non che sia difficile seguire questo arabesco della memoria in cui i ricordi si distendono come ramages in nero su un paesaggio nevoso, questo susseguirsi di attimi che costituisce la narrazione, attraverso una complessità di sensazioni e sentimenti assolutamente inverosimili in un bambino. Vi sono due linee narrative che si intersecano continuamente, una legata all’infanzia, che parte dall’incontro con Chloe, Myles e i loro genitori, che procede mantenendo viva una certa suspence verso il dramma che si intuisce inevitabile e si manifesta in una rappresentazione fin troppo simbolica della fine dell’infanzia e della scacciata dall’Eden per colpa della solita mela; l’altra che parte dalla morte della moglie per risalire alla vita in comune e all’incontro con Max. Il terzo tema, in sottofondo come un basso continuo, riguarda Miss Vavasour e i Cedars, conducendo alla fine il lettore a una doppia sorpresa (o meglio una sorpresa e mezza, perché la seconda non è così sorprendente). Si rivela così, sotto l’apparente svagatezza di chi scorre di ricordo in ricordo, una struttura complessa e di ferrea costruzione.     
Banville scrive benissimo ma viene da dire troppa grazia: una pagina da maestro qui e là si apprezza molto, tutto un libro così cesellato forse stroppia. Leggetelo se siete ammiratori della bella scrittura, se sapete apprezzare la stupefacente maestria del flusso di immagini e attimi fissati nella precisione della fotografia, o piuttosto, con maggiore precisione, del ritratto. Bisogna ammettere che c’è una grande naturalezza nel fittissimo tessuto di paragoni, associazioni, divagazioni, descrizioni, splendide ma molto faticose perché contengono già tutta una nuova storia. Due piccoli esempi (la traduzione è mia per cui scusate le goffaggini): "Mi sentii grande e grosso, goffo e impacciato come un bambinone delinquente mandato dai genitori disperati in campagna per essere sorvegliato da una coppia di anziani parenti" e "[la seguii] con la borsa in mano, come l'assassino beneducato in un vecchio thriller in bianco e nero".  
Se cercate l’intreccio, l’avvicendarsi dei fatti, astenetevi. Vi verrebbe solo un’irritazione incontenibile. Questo è un libro che potete ammirare incondizionatamente o può farvi stramazzare di noia, ma di cui probabilmente non è facile innamorarsi emotivamente. È pervaso da una certa freddezza dovuta all’eccesso di virtuosismo della scrittura e al compiacimento evidente dall’autore. Non voglio dire che sia un libro insincero ma certo in ogni pagina c’è un sospetto di statuarietà, pare di vedere l’autore atteggiarsi, applaudirsi da solo per la propria bravura.
Questo virtuosismo esibizionistico è in chiara competizione con la pittura, cui in effetti l’io narrante fa continui riferimenti, soprattutto a Bonnard (su cui sta scrivendo un saggio), Van Gogh e chi più ne ha più ne metta. E anche se è tutt’altro che noioso, richiede un’attenzione continua.   
Pur così studiato, tutto sommato freddo malgrado i temi siano potenzialmente molto emozionanti, riesce in qualche momento a commuovere e lascia pieni di ammirazione per un autore che svetta sulla produzione media come un cipresso in un campo di fragole (per fare un paragone à la Banville), sicuramente molto cosciente di sé e mai spontaneo ma felicemente lontano da qualsiasi moda e vezzo letterario da scuola di scrittura americana. Inoltre nel sottofinale il colonnello in pensione diventa protagonista di un episodio di così smaccato patetismo da strappare l'applauso per il coraggio, lo sprezzo per la critica e la sicurezza di sé dimostrati dall'autore, che mi ha fatto schiattare d'invidia perché adoro il patetico ma non oserei mai utilizzarlo (oltre a non esserne capace). 
John Banville, nato a Wexford in Irlanda nel 1945, è romanziere e giornalista, pluripremiato e prolifico. Ha utilizzato anche lo pseudonimo di Benjamin Black. Il mare (2005), il suo diciottesimo romanzo, in Italia è stato tradotto da Eva Kampmann per Guanda. 

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