mercoledì 30 settembre 2015

L'amore tra due donne a Manhattan e on the road negli anni Cinquanta: Patricia Highsmith, Carol, ora film di Todd Haynes con Rooney Mara e Cate Blanchett

Sono andata a vedere il film Carol di Todd Haynes (Lontano dal paradiso, Mildred Pierce) che, lo dico subito, non mi è piaciuto in modo particolare. Indipendentemente dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith da cui è tratto, non mi ha affascinato e mi ha fatto ripensare con nostalgia al bellissimo libro facendo continui confronti, cosa sbagliata che non si dovrebbe mai fare, lo so benissimo. Ma tant'è. Bravissime le protagoniste, Rooney Mara (graziosissima mescolanza di Keyra Knightley con - dio mi perdoni - Audrey Hepburn, alla fine) e l'antipatica Cate Blanchett, con i pompelmi nelle guance e il labbro superiore gessificato, inverosimile come trentenne per cui l'eccessiva differenza di età ne fa più una seduttrice che una donna in bilico. Il fatto che Therese sia fotografa invece che scenografa non cambia molto, ma il personaggio è molto semplificato e mancano quasi del tutto gli amici di contorno, l'ambiente newyorchese dei giovani arrivati dalla provincia, precari, ambiziosi, disposti a fare qualsiasi lavoro li porti più vicini alla realizzazione dei loro sogni, e così un po' tutto ciò che nel libro è importante ma esula dalla storia d'amore sparisce, in favore di un certo morbido decorativismo, e il risultato è piuttosto patinato e estetizzante. Le scene di sesso esplicito mi sono parse superflue, ma con due attrici così capisco che si trattasse di una tentazione irresistibile. Comunque le critiche sono tutte positive, e dato il livello di quello che si vede in giro penso che valga la pena di andare a vederlo (ma ieri ho visto Star Wars: Il risveglio della Forza e mi è piaciuto infinitamente di più, mi sono divertita e basta).
E per la cronaca, il gesto finale manca.

Di seguito, la recensione del romanzo:
     
Uno dei molti motivi per cui sono una sostenitrice sfegatata e un'utilizzatrice esclusiva di ebook, è che in formato digitale si possono scovare tantissimi libri che in libreria sono introvabili. Si sa che dopo tre mesi un libro sparisce dalle librerie, e siccome non sono appassionata di best seller e mi capita molto spesso di avere curiosità che riesco a soddisfare con poca spesa cercando in rete, è ormai rarissimo che intraprenda la lettura di un cartaceo. Questo romanzo di Patricia Highsmith (1921-1995), scrittrice che amo moltissimo e non mi ha ancora mai delusa, scritto nel 1949, è uscito nel 1952 negli Stati Uniti sotto lo pseudonimo di Claire Morgan; Bompiani lo ha ripubblicato nel 2007 con la traduzione di Hilia Brinis.

Therese, diciannovenne aspirante scenografa, vive a New York e per pagare affitto e pasti lavora come commessa avventizia in un grande magazzino. Non ha famiglia, è cresciuta in orfanotrofio, ma ha un quasi boy friend, Richard, e qualche amico. Un giorno, al lavoro, vede una cliente bionda, elegante, bellissima, e in un attimo ne è perdutamente affascinata, ossessionata. Con un atto di cortesia riesce a contattarla, e ne nasce un'insolita amicizia basata su un fortissimo interesse reciproco che all'inizio non si esprime ma poi si definisce come amore. Per Therese è la scoperta di se stessa, per Carol, trentenne, sposata e con una figlia, il riconoscimento e l'accettazione di un destino che passa attraverso il divorzio e il doloroso distacco dalla figlia.

Non succede molto altro nel romanzo, ma l'uscita di Therese come da una crisalide e il tormentato abbandono di Carol sono molto più affascinanti e appassionanti che una storia piena di colpi di scena. Uno dei molti meriti di questo bellissimo libro è il tono, caldo ma insieme oggettivo e distaccato, con cui è narrata una vicenda che avrebbe potuo facilmente sfiorare il melodramma o il patetico. I due personaggi principali sono perfetti, e anche quelli di contorno funzionano sempre. Malgrado abbia superato ampiamente i sessant'anni lo rende molto moderno la reticenza, non tanto dei fatti quanto delle parole con cui sono raccontati. Non c'è un particolare superfluo, i cambiamenti di Therese e di Carol si vedono nelle loro azioni, nei loro avvicinamenti e nelle fughe. La società attorno, il marito e il fidanzato, la giustizia umana, tutto cerca di separarle e dimostrare che il loro non è amore ma follia, e non può nemmeno esistere. Ma non ci sono né punizione né lacrime amare per Carol e Therese, e anche questo, oltre a essere bello e giusto, è molto coraggioso per i tempi e a modo suo rivoluzionario. Questo romanzo è l'unico in cui Patricia Highsmith affrontò tematiche di questo tipo.

Come bonus, Carol ci fa vivere per qualche ora in una New York fascinosissima, quella che abbiamo visto in tanti film in bianco e nero, dove donne bellissime in visone bevono drink sofisticati (e quanti ne bevono! a tutte le ore, a tutte le età) negli alberghi più alla moda di Manhattan. Dove i ricchi che abitano nelle periferie residenziali accompagnano in auto gli amici squattrinati nelle loro abitazioni di Manhattan. E il lungo viaggio in macchina delle due donne verso ovest ci fa sognare autostrade diritte che si perdono nel nulla, motel accoglienti e città torreggianti nel deserto. So che ne è stato tratto un film, forse non ancora uscito in Italia, e spero che abbiano conservato il finale che sembra fatto apposta per il cinema: una mano che si alza in un saluto da lontano, e in quel saluto c'è la gioia inaspettata, la promessa, il riconoscimento, l'accoglienza, la sicurezza dell'amore che si specchia.
Mi resta solo un dubbio, non è che quella che viene più volta nominata come Washington (a Salt Lake, Therese continua a chiedere a Carol: ma sei sempre dell'idea di andare fino a Washington? mentre si spingono sempre più verso la costa ovest) non è la città ma lo stato di Washington, quello di Seattle per intendersi?    

martedì 22 settembre 2015

Il fascino irresistibile del luogo comune: Peter Mayle, Un anno in Provenza, e Valeria Corciolani, Il morso del ramarro

Questo post lo dedico alle consolazioni dell'ovvietà, alle rassicurazioni di ciò che è scontato, al caldo rifugio del prevedibile. Al conforto dei libri banali, che tengono compagnia senza scossoni né buche improvvise. Alle pagine terra terra e a quelle di fantasia fatta in serie. A un libro rosa e a uno senza colore, ma profumato di soffritto, di tartufo e (spiace dirlo, spiace anche solo immaginarlo) di aglio.

Cominciamo proprio dal libro del golosone inglese Peter Mayle, Un anno in Provenza (1990).
Resoconto scandito mese per mese delle esperienze di una coppia britannica che decide di trasferirsi a a vivere in Provenza, non sul mare ma nel Parco naturale del Lubéron, compra una casa nel bosco e ne intraprende la ristrutturazione, mette in fila una serie di luoghi comuni sui francesi che sono davvero un piacere. Chissà se le cose sono cambiate in venticinque anni, ma nell'esperienza di Peter Mayle e sua moglie, due persone davvero gradevoli a quanto si evince dal testo, ospitali, pazienti, ironiche, piene di affettuosa ammirazione per i nativi, gli aborigeni della Provenza pensano soprattutto a mangiare, sono assolutamente inaffidabili come operai per quel che riguarda puntualità e impegni ma dei mostri di ingegnosità e perizia in grado di risolvere problemi insormontabili per il pragmatismo britannico escogitando soluzioni originali.
Peter e sua moglie sono degli entusiasti, sempre pronti a sperimentare nuovi ristorantini di paese dove rustiche signore cucinano in maniera sublime, partecipano alla corsa delle capre, imparano il francese, accolgono visitatori importuni, corrono di qua e di là alla ricerca del vino migliore, insomma si ambientano benissimo e vedono solo quello che vogliono vedere. Certo c'è il mistral che soffia duro, d'inverno fa freddo, i turisti sono fastidiosi, ma anche se Peter Mayle non arriva a dirlo il lettore non può fare a meno di immaginare tutti quei provenzali girare col basco e la baguette sotto l'ascella, bofonchiando oh bon bon bon e oh là là e bevendo pastis nei caffè all'aperto.

Un libro estremamente amichevole e piacevolissimo da leggere. Non ci troverete una parola che vi sorprenda o vi insegni qualcosa ma trascorrerete qualche ora in compagnia di un amico simpatico che sa raccontare in maniera coinvolgente, amena e riposante. Consigliatissimo per viaggi in treno o traghetto, attese in aeroporto, sonnellini sulla spiaggia.  
Traduzione di Emilio Castellani.

Il morso del ramarro (2014) di Valeria Corciolani è altrettanto impalpabile ma molto meno distensivo, almeno per me, perché il tipo di luoghi comuni che utilizza è del genere che trovo irritante al massimo. Ma questo è un problema mio: me lo immaginavo benissimo prima di cominciarlo, e il rimedio era semplice, bastava non leggerlo. Il motivo per cui l'ho fatto è che sono iscritta all'"offerta lampo kindle" e non smetto mai di stupirmi del numero abnorme di libri "rosa", o meglio libri di donne per donne, che vengono proposti e quindi sfornati da autrici prolificissime che si moltiplicano in progressione geometrica. Di questo ho letto recensioni ottime e così l'ho scaricato.


Ambientato a Chiavari, patria della bella autrice, narra le vicende intrecciate di parecchi personaggi ma il principale è Virginia, trentenne separata con una figlia adolescente e due gemelli in età da asilo, un marito traditore sullo sfondo, qualche nuovo astro all'orizzonte, un'amica, una suocera, ecc ecc. Poi ci sono dei giovani ricchi e delinquenti ovviamente rampolli (termine che ormai significa "ragazzo ricco" e si usa senza indicazione di chi è il rampollo), dei vecchietti in gamba (molto di moda, si trovano in una casa di riposo e sono inevitabilmente "arzilli"), una badante peruviana e un maggiordomo (sic!) filippino con ruoli di un certo rilievo, eccetera eccetera, cioè il repertorio completo del neoconformismo da sitcom più che da telenovela (quello, per intendersi, per cui per rappresentare l'intimità familiare viene mostrata la coppia, e magari anche i piccini, mentre si lavano i denti tutti insieme e conversano con lo spazzolino in bocca). Anche i capitoletti brevi e frizzanti sono come strisce quotidiane, e la vicenda rispetta tutti gli elementi che lo spettatore (ooops, il lettore) si aspetta e pretende: un po' di amore e sesso of course, una sfumatura di giallo, attenzione alla cucina (la suocera complice e simpatica!), un po' di ironia blanda e benevola, la famiglia come centro e orizzonte, un pizzico di cultura ogni tanto (stile copia e incolla da wikipedia) e uno spruzzo di spiritualità. Buoni premiati e cattivi puniti. Ma è la protagonista che colpisce di più, rispecchiando un tipo di donna che è, appunto, l'immagine del conformismo televisivo-cinematografico di oggi. Precaria, gelosa, vendicativa, mamma più che sollecita, con un'amica del cuore che fa un mestiere strano (ma l'amico gay con problemi amorosi ci viene risparmiato).

In questo caso a rassicurare il lettore bambino è l'accumulo di elementi noti e stranoti, e soprattutto di conformismo: non c'è nessun elemento che possa stancare, sconcertare o inquietare chi legge. L'unica sorpresa finale (e qui, contro le mie abitudini, rischio lo spoiler) ce la riserva Virginia ma è uno scarto verso la norma, che ha lo scopo di gratificare e rassicurare. Ma non fraintendetemi, questa non è una recensione malevola. Il morso del ramarro fa strabene il suo mestiere, e mi ha aiutato egregiamente a capire quello che volevo, cioè il motivo del successo di questo tipo di letteratura: la prevedibilità. La lettura che offre è davvero uno svago, nel senso che non chiede nessuna fatica, né per cercare di capire quello che si legge, né per interpretare azioni, eventi, parole o affrontare idee e immagini nuove. Come quando si compra qualche prodotto confezionato al supermarket: si sa quello che si vuole e si è certi di trovarlo dentro la vaschetta. E di rimborsi non c'è bisogno di parlarne, perché si resta soddisfatti di sicuro. 

sabato 19 settembre 2015

Date retta a Lou Reed, quanto si chiacchiera a NY! Letture futili su argomenti seri, David Leavitt - Martin Bauman

Ma quanto si chiacchiera a New York! New York telephone conversation di Lou Reed è la perfetta colonna sonora per questo libro: Oh oh my, and what shall we wear? Oh oh my, and who really cares?

Di David Leavitt ho letto a suo tempo La lingua perduta delle gru (1986), di cui ricordo poco se non che mi era piaciuto abbastanza da spingermi a leggere anche Ballo di famiglia (1984). Poi confesso di essermi persa tutta la sua produzione finché sono incappata in Un posto dove non sono mai stato (1990) e infine in Martin Bauman (2000). Questo romanzo mi ha fatto pensare molto, e per molte ragioni. Prima di tutto il lungo monologo in prima persona mi ha costretta a farmi continuamente una domanda che considero sbagliata, inutile e anche stupida: ma Martin Bauman è David Leavitt? Quanto di quello che l'autore racconta è autobiografia, quanto è invenzione? Il fatto è che il protagonista ha in comune con l'autore così tante caratteristiche che è difficile non pensarci. Martin Bauman è un giovane ebreo (come Leavitt), omosessuale (come Leavitt), borghese (come Leavitt), con istruzione universitaria (come Leavitt), ambizioso e determinato (qui posso solo immaginare che lo sia anche Leavitt, ma non credo di essere molto lontana dal reale), raggiunge una grande notorietà letteraria all'età di 23 anni, all'inizio degli anni '80, con una raccolta di racconti (come Leavitt con Ballo di famiglia), vive a New York.

L'altro aspetto che mi ha acchiappata, tra stupore e incredulità, è tutto quanto riguarda lo scrivere e la carriera dello scrittore (e mi ha fatto ripensare allo sventurato Joël Dicker e il suo La verità sul caso Harry Quebert, probabilmente ispirato nella figura del protagonista da un'indigestione di Martin Bauman & friends). Martin e i suoi amici scrivono con l'unico scopo di raggiungere il successo, che a sua volta consiste (oltre a strappare anticipi sempre più consistenti agli editori - ma non ve l'avevo detto che questo è un romanzo di fantascienza!?!) nella partecipazione continua e compulsiva ai party letterari pieni di celebrità, da indicare all'inizio con stupefatta ammirazione e salutare poi per nome con familiarità paritaria. E chiacchierano un sacco, fanno un sacco di pettegolezzi, commentano i rapporti di questo con quello, stanno tra di loro, si consolano e si specchiano l'un l'altro. I personaggi sono molti e meravigliosamente descritti. Naturalmente chi è addentro nel mondo descritto ha capito subito chi è chi, ma per noi umani questo è un dettaglio di poca importanza. Spiccano il maestro amato e odiato Stanley Flint, l'amica nemica Lisa Perlman, e l'amante non tanto amato Eli Aronson.

La storia è impalpabile, non succede praticamente niente se non traslochi e incontri ma la lettura incanta, David Leavitt è uno scrittore eccellente che riesce a tenere incollati per centinaia di pagine su quello che lui ha detto a lei e quello che lei ha risposto. Persino quando parla di argomenti tragici e seri come l'AIDS riesce a farli sembrare futili, come se tutta la vita fosse un lungo gossip, e nello stesso tempo riuscire interessante. Un romanzo vivamente consigliato a chiunque, e in particolar modo a chi scrive e punta molto alla celebrità letteraria. Con un'avvertenza: da quello che racconta David Leavitt, non pare che i VIP dell'editoria a New York vadano molto in televisione. Se è quello cui aspirate, forse è meglio restare in Italia.
Bella traduzione di Delfina Vezzoli.