martedì 27 dicembre 2016

Un sì, un ni e un no

Comincio con il sì che riguarda un film e non un libro, cioè Captain Fantastic di Matt Ross con un ottimo Viggo Mortensen. Storia interessante, che fa pensare, anche se grazie al cielo non si tratta di un film pensoso, anzi. Padre un sacco alternativo che alleva i figli nella foresta (sei, tra i diciotto e gli otto, maschi e femmine), abituandoli a ogni sorta di sforzo fisico anche estremo e nel contempo educandoli alla lettura "alta", allo studio delle scienze, alla discussione, all'approfondimento. Un po' inverosimile questa parte in effetti (il padre sembra un po' un superuomo onnisciente) ma i ragazzi sono felici, sicuri, capaci di cavarsela. Poi interviene qualcosa di inaspettato che li scaraventa nel mondo della modernità, con conseguenze varie e molteplici. Se non siete tanto pistini e riuscite a lasciarvi andare a seguire le vicende dei riuscitissimi personaggi e soprattutto chiudete un occhio sulla sdolcinatura dell'ultima mezz'ora, completa della frase che gli yankee dovrebbero adottare al posto di In God we trust, cioè l'ormai indispensabile Siamo una famiglia!, mi sento di consigliarvi vivamente Captain Fantastic. Ha un grandissimo pregio, non è noioso. Neanche una volta ho tirato fuori di straforo il cellulare per guardare l'ora, e questo per me vuole dire moltissimo.

Il ni ha un'origine molto più insigne: Jakob von Gunten di Robert Walser. Pubblicato nel 1909, è una
sorta di diario di un tredicenne che, fuggito di casa, affida se stesso e tutti i soldi che possiede al direttore di una scuola molto particolare, l'Istituto Benjamenta, in cui ai ragazzi viene insegnato solo a non fare nulla. Oltre al direttore incontriamo sua sorella, Lisa, che fa l'insegnante, altri compagni di classe, in particolare Kraus, e un fratello di Jakob incontrato casualmente. Dei personaggi, continuamente osservati, Jakob fa descrizioni cangianti e fluttuanti, tenendoci avvinti alle sue parole spesso riflessive, pensose, sincere ma insieme poco affidabili. Non succede quasi niente, alcuni episodi sono quantomeno inesplicabili, e l'unica aspirazione di Jakob è di servire, imparare a servire, e questo gli insegnano all'Istituto Benjamenta. E' un libro ipnotico, scritto con leggerezza e precisione, che inchioda alla lettura pagina dopo pagina anche se i fatti sono scarsi e abbondano le riflessioni sulla vita e sulle persone. Il ni è dovuto esclusivamente al fatto che non ho capito il senso profondo della storia, la filosofia rinuciataria del personaggio, il significato della sua storia. Ma è un bel libro, se si riesce a affidarsi e lasciarsi andare alle parole.

Letto a dieci anni dalla sua pubblicazione (2006) Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous non mi ha davvero conquistata. Forse avevo troppe aspettative o comunque molto diverse da quello che ho trovato. Capisco che il fatto che l'autore sia algerino e coraggioso, l'argomento siano i pregiudizi razzisti e le difficoltà dell'integrazione, la multietnicità e tutta la scemenza dei "cittadini perbene", abbiano suscitato giustamente interesse intorno al libro. Ma ciò detto, il risultato è molto modesto: i personaggi sono puri cliché anche linguistici (vedi la portinaia napoletana), il che rende i loro discorsi molto prevedibili e poco stimolanti. L'intreccio giallo poi è chiaramente posticcio, utilizzato giusto perché il giallo tira e è spendibile come strillo pubblicitario. Il personaggio di Amedeo, sicuramente l'invenzione più brillante del romanzo, si spegne poi tristemente nelle rivelazioni finali come una miccia bagnata. Pensare che la struttura a monologhi alternati offriva spazio a soluzioni divertenti o drammatiche a scelta. Comunque sono molto contenta che il romanzo abbia avuto successo, la letteratura italiana avrebbe tutto da guadagnare dall'apporto massiccio e multicolore di chi vede l'Italia e chi ci abita con occhi nuovi, come Amara Lakhous, quindi ben venga il favore del pubblico a Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, che ha avuto anche una versione cinematografica.  













giovedì 15 dicembre 2016

Il perfetto racconto di Natale: Gunnar Gunnarsson, Il pastore d'Islanda

Di Gunnar Gunnarsson  ho letto in tempi ormai preistorici L'uccello nero, pubblicato nella benemerita Medusa degli Italiani. Non ricordo la storia se non che c'entrava un tormentatissimo pastore protestante, ma ho ben presente l'impressione che mi fece la descrizione della cupa e gelata Islanda di cui a stento conoscevo l'esistenza. Da quando ho scoperto, grazie alla mai abbastanza ringraziata Emilia Lodigiani e la sua casa editrice Iperborea, le meraviglie e i piaceri della letteratura islandese, mi sono sempre ripromessa di rileggerlo ma alla fine è con Il pastore d'Islanda che è avvenuto il mio secondo incontro con Gunnar Gunnarsson.
 
Si tratta di un racconto lungo più che di un romanzo, che rappresenta una classica lettura natalizia nel paese d'origine dell'autore. Scritto nel 1936 in danese come tutte le opere di Gunnarsson, fu da lui stesso tradotto in seguito in islandese. La storia è semplice: il pastore Benedikt da ventisette anni suole partire, nel primo giorno dell'Avvento, alla ricerca delle pecore smarrite sulle montagne per riportarle in pianura e salvarle dalla morte certa. Insieme a lui il montone Roccia e il cane Leó costituiscono quella che i contadini delle pochissime case sparse nella campagna inospitale chiamano, di nascosto, "la santa Trinità". Viene accolto con molto affetto (implicito) perché il suo compito è nobile e dettato solo dal suo forte senso di responsabilità nei confronti degli animali, importantissimi e molto presenti in tutto il libro. Il suo rapporto con Roccia, il montone fondamentale per tenere insieme le pecore una volta trovate e convincerle a muoversi, è di enorme rispetto e considerazione. Le prime cure sono sempre per lui, per lui il fieno che Benedikt porta faticosamente in spalla su per le montagne. Anche Leó, che aiuta a scovare le pecore smarrite, è molto importante, ma il rapporto tra lui e il padrone è più paritario, cameratesco: si dividono il cibo fraternamente.

Il pastore Benedikt è vecchio (cinquantaquattro anni!) e forse non ha più la forza di quando ha incominciato a rincorrere le pecore sui monti nel più profondo dell'inverno. Ma il suo cuore è grande, la sua natura contempla la generosità e l'abnegazione, e forse qualcuno ne approfitta. Fatto sta che prima di riuscire a dedicarsi alla sua missione viene continuamente interrotto da gente che gli chiede un aiuto, per riportare in pianura le pecore che ha avventatamente lasciato al pascolo, o per ritrovare dei cavallini smarriti. Benedikt non si sottrae, sa che il suo compito è aiutare chi ha bisogno di lui, condivide con loro le sue scarse provviste e trascorre giorni preziosi nella tempesta e nella neve. La natura è l'altra grande protagonista del libro: ottusamente maestosa e potente, incomprensibile, matrigna ma talmente forte che non si può che inchinarsi davanti alle sue spaventose manifestazioni e, letteralmente, infilarsi in un buco sottoterra finché la tempesta non passa.

La fatica per non farsi abbattere dalla natura è titanica, ma Benedikt, il pastore che salva le pecorelle smarrite, assurge a livelli di sopportazione che ne fanno quasi un santo, quasi un Cristo in croce, inconsapevole e amoroso nei confronti dei suoi animali. Sembra che sia impossibile sopravvivere alle condizioni in cui si trova, e giusto per non farvi un dispetto non vi dico come va a finire. La perfetta favola di Natale, da leggere accanto a un camino scoppiettante mentre fuori il vento ulula, la neve turbina e nella casa si spande il grato profumo dei cibi festivi.
La curatissima edizione comprende un'interessante postfazione di Jon Kalman Stefansson (di cui ho più volte parlato su queste pagine) e una nota di Alessandro Zironi. Traduzione dal danese di Maria Valeria D'Avino.

domenica 11 dicembre 2016

Meglio fare il magazziniere da Wallmart o andare in guerra? Saïd Sayrafiezadeh, Brevi incontri con il nemico



Saïd Sayrafiezadeh, nato a Brooklyn 1968 da padre iraniano e madre ebrea americana, entrambi membri del Partito Socialista dei Lavoratori, è uno scrittore e drammaturgo statunitense. Oggi vive e lavora a New York. Nel 2009 ha pubblicato Quando verrà la rivoluzione avremo tutti lo skateboard per il quale nel 2010 ha vinto il Whiting Writers’ Award. Inoltre ha scritto numerose opere teatrali. 

Brevi incontri con il nemico è una raccolta di otto racconti estremamente interessanti e di gradevole lettura. I nomi dei protagonisti cambiano ma la voce dell'io narrante è sempre la stessa, un maschio giovane e solitario diviso tra un lavoro poco soddisfacente - cuoco in un fast food, fattorino, magazziniere in un Wallmart -, con abitazioni minuscole, lunghi tragitti in autobus quotidiani, la vita dei ricchi intravista solo quando assume l'incarico, non retribuito, di custode di una villa lussuosa, scioperi da affrontare, amori inarticolati o comunque incapaci di lasciare una traccia e un'unica possibilità di evadere: partire volontario per la guerra, con una ferma di un anno. Questa guerra generica e senza nome sta sempre sullo sfondo, con alterne vicende (un momento "vinciamo noi" e le perdite quotidiane sono insignificanti, uno o due dei "nostri" di fronte a centinaia dei nemici mentre "il loro uomo" è in fuga, un altro momento sono "loro" a vincere, il loro uomo torna e le "nostre perdite" aumentano vertiginosamente), una guerra che non ha bisogno di essere definita né spiegata perché dura da sempre e forse nessuno sa dove si svolge in realtà. Ma poi c'è la volta che ci si trova faccia a faccia con il nemico, e si fa quello che fanno i soldati, si spara e si uccide.

Sono racconti amichevoli, vite insignificanti raccontate senza mai alzare il tono, senza predicare né filosofeggiare, mettendo solo in fila i fatti e le considerazioni spicciole del protagonista, con una naturalezza sapiente e ammirevole. Per una volta non si sente quel gusto irritante di scuola di scrittura che rende molte opere provenienti dagli USA così fastidiose. Inoltre, per una come me che ama i racconti e apprezza moltissimo chi ha la capacità di scriverne, questo è un libro davvero soddisfacente e Saïd Sayrafiezadeh un autore da seguire. In Italia, purtroppo, i racconti non sono tenuti in nessuna considerazione, gli editori li evitano perché vendono poco, e gli autori di racconti sono considerati di serie b. Al meglio si pensa che siano una specie di imparaticcio, di allenamento per arrivare al romanzo (a me è capitato di sentirmi dire "sei stata bravissima a scrivere un vero romanzo" dandomi implicitamente dell'incapace o dell'impotente quando, come mi capita molto spesso, scrivo racconti). 

Ho letto in alcune recensioni un'interpretazione politica dei racconti di Saïd Sayrafiezadeh perché rappresentano una generazione senza speranze, e sono potenzialemente elettori di Trump. A me non interessa tanto questo discorso, e mi pare che i protagonisti di Brevi incontri con il nemico siano più rassegnati che incazzati, più chiusi nel loro piccolo mondo che aggressivi. Ma soprattutto non ne hanno bisogno per essere letti. Basta il fatto che questo è un bel libro, ben scritto e interessante. Vivamente consigliato.
Traduzione di Gioia Guerzoni. 

lunedì 5 dicembre 2016

Un autore spiritoso, un libro divertente: David Sedaris, Quando siete inghiottiti dalle fiamme

Che io amo David Sedaris lo dico e lo ripeto dal lontano 2004, quando mi sono imbattuta in Me parlare bello un giorno. Poi ho letto molti altri libri, Mi raccomando tutti vestiti bene, Holidays on ice, Diario di un fumatore, Bestiole e bestiacce, l'ultimo Esploriamo il diabete con i gufi e ognuno mi ha dato momenti di piacere intenso e senza controindicazioni. A renderli una lettura così gratificante contribuiscono molti fattori: l'autore, che parla sempre in prima persona, affabula da un brano, o racconto, all'altro, racconta sempre di sé ma non risulta mai né autocentrato né presuntuoso, anzi, con il suo occhio acuto, ironico, pronto a cogliere i dettagli grotteschi e umani insieme, è intensamante simpatico. Accumula particolari che gli permettono di partire da una situazione normale, quotidiana, e approdare nel più puro grottesco. Diverte, fa ridere e sorridere, senza mai ridicolizzare nessuno, senza essere maligno, anzi, dirigendo l'ironia principalmente su se stesso.

Protagonisti sono i suoi famigliari, soprattutto le sorelle Lisa e Amy e il compagno Hugh, ma prima o poi ci passano tutti. Sempre leggermente fuori posto, emotivo, agitato e pasticcione David, razionale, calmo, mai sorpreso Hugh, protagonista delle più assurde situazioni Lisa. In questa raccolta i primi racconti non sono forse i più brillanti ma sempre godibili, e man mano che si prosegue nella lettura diventano irresistibili. Il racconto che dà il titolo alla raccolta narra le sorprese, le gratificazioni e gli inciampi di un lungo soggiorno che David e Hugh fanno in Giappone, mentre Spazio fumatori tratta un argomento che appassiona l'autore (che si è trasferito in Francia perché vi si poteva ancora fumare dappertutto quando negli Stati Uniti vigeva già un rigido proibizionismo) cioè gli sforzi per liberarsi dal vizio del fumo.

Se non conoscete ancora Sedaris un po' vi invidio perché avete davanti a voi un gran piacere da scoprire. Magari, se non l'avete mai letto, meglio partire da Me parlare bello un giorno o Mi raccomando tutti vestiti bene, ma in realtà ognuno dei suoi libri vale la pena di essere letto per la grazia, il divertimento, la leggerezza e l'intelligenza con cui è scritto e che comunica al lettore con la stessa semplicità e naturalezza di una chiacchierata tra amici. 
Efficace traduzione di Matteo Colombo.

domenica 27 novembre 2016

A qualcuno la vendetta piace caldissima: Bret Anthony Johnston, Ricordami così

Per cominciare con una citazione che più scontata non si può ma nello stesso tempo esprime appieno la situazione, ricorro all'incolpevole René Magritte e dichiaro subito che questa non è una recensione. Se vi interessa leggerne una vera la trovate facilmente, il web ne è pieno perché Ricordami così di Bret Anthony Johnston è l'ennesimo caso letterario dell'anno (2015). L'autore, texano, fa di mestiere l'insegnante di scrittura creativa e si vede. Libro costruito e ipercompiaciuto, la pianificazione a tavolino già si intuisce dalla scelta di raccontare il dopo, senza mai sollevare il velo sul cosa, in una storia di sofferenza da cui è escluso il protagonista. Ma il romanzo è molto leggibile, friendly per il lettore, mai ho avuto la tentazione di lasciarlo né mi è pesato andare avanti, anzi, non mi spiaceva trovarlo la sera prima di dormire, anche se è tutto incentrato su due temi che aborrisco: famiglia e emozioni.

La vicenda si svolge a Southport, immaginaria cittadina del Texas del sud, vicina a Corpus Christi, location in effetti molto fascinosa che fa da sfondo perfetto ai continui andirivieni dei personaggi. In una famiglia normale, padre insegnante, madre commessa part-time in una tintoria, due figli adolescenti, un nonno che gestisce un banco dei pegni, un evento inatteso e disastroso sconvolge la vita di tutti: Justin, il figlio maggiore, sparisce. Le ricerche vengono condotte senza sosta, la comunità è coinvolta, ma ormai tutti hanno la certezza che Justin sia morto. E invece, quattro anni dopo la sua sparizione, Justin ricompare. Da questo punto in poi degli anni in cui Justin è sparito, di quello che ha vissuto, di quello che sente e pensa, non si parla più. Il romanzo si incentra sulle emozioni dei familiari, genitori, fratello e nonno, su come vivono la ricomparsa di Justin: mai un barlume di pensiero razionale, solo impulsi e pancia.
Nessun personaggio esterno ha spazio né importanza, a parte qualche comparsata necessaria per la vicenda. Il rapitore è subito individuato e arrestato, e proprio su di lui e le sue vicende giudiziarie si avvitano i sentimenti, le fantasie e i desideri della famiglia in un contesto claustrofobico, in cui i personaggi vivono moltissimo di notte. Questa famiglia tutta di maschi, a parte una madre che vive esclusivamente di emozioni e sensazioni, brividi e incubi, mi ha fatto pensare che l'autore abbia letto e riletto Virginia Woolf e Katherine Mansfield.

L'aspetto più interessante è lo spaccato di vita americana che ne viene fuori. La madre per occupare il tempo con un po' di volontariato fa turni di monitoraggio a una delfina, che è stata danneggiata e necessita di un periodo di convalescenza prima di essere rimessa in acqua. I turni coprono le ventiquattrore, i volontari annotano ogni mossa di Alice, che nuota sola in un capannone appositamente riscaldato e illuminato. Non faccio commenti per non inimicarmi gli animalisti dopo gli amanti della famiglia. Il figlio Griffin è uno skater esperto (Bret Anthony Johnston era skater professionista prima di darsi alla letteratura), e passa la maggior parte del suo tempo a allenarsi nella piscina di un motel abbandonato. L'attività del tremendo nonno, il banco dei pegni privato, è molto importante perché tra gli oggetti che i clienti vi lasciano ci sono armi di ogni tipo. Per celebrare il ritorno di Justin gli viene dedicato lo Shrimporee, l'annuale fiera dei gamberi cui tutta la comunità locale collabora e partecipa. 
I personaggi femminili non hanno ruolo al di fuori di quelli in rapporto ai maschi. C'è una moglie, il personaggio a mio personalissimo parere più repellente; un'amante, funzionale a chiarire i turbamenti e pentimenti del padre ma viva quanto una pianta in vaso; la ragazza del figlio minore, apparentemente molto alternativa e assertiva ma in realtà protettiva e attaccatissima al suo maschietto, ha in nuce qualità femminili di cura, di forza, di amore, proprio come dev'essere una futura moglie-madre. La madre, che per sbaglio si registra al centro di protezione della delfina con il cognome da nubile, ne fa un dramma: ma negli USA le donne non usano mai il proprio cognome?
Comunque tutti i personaggi, che per esprimersi hanno solo le proprie emozioni, sono fissi e schematizzati. Il meglio riuscito è Griffin detto Griff, adolescente diviso tra l'affetto per il fratello ritrovato e l'inevitabile sensazione di essere trascurato da tutti. A parte Fiona, la sua ragazza, non ha un amico né un'amica, passa il suo tempo tutto solo con il suo skateboard. Justin, che per sacrosanta scelta dell'autore è visto solo dall'esterno e di sguincio, in realtà risulta un po' inverosimile, più un vecchio saggio autosufficiente che un ragazzino rimasto quattro anni in balia di un pedofilo. E neanche i genitori hanno un amico o un'amica (l'amante del padre è un personaggio del tutto accessorio, che farebbe una gran pena se nel finale l'autore magnanimo non ci facesse capire che anche lei ha una famiglia). Intorno a loro la comunità di Southport che ha partecipato attivamente alla ricerca di Justin e ora partecipa al sollievo, ma in forme del tutto impersonali come l'invio di piante ornamentali, che la madre in un momento di sconforto getta via.

Ma la grande emozione, l'impulso che lega genitori e nonno è la vendetta, il desiderio di vendetta, la sicurezza della necessità della vendetta. La voglia di pena di morte, di uccidere, attraversa il romanzo dalla prima pagina all'ultima come se fosse giusto e naturale, come se così dovesse essere e basta. E' un pensiero insensato e agghiacciante, ma per l'autore non c'è nessun dubbio che sia sbagliato. Se c'è un deterrente, non è mai legato al fatto che uccidere il rapitore sia altrettanto sbagliato di quello che ha fatto lui, ma solo alle conseguenze che può portare all'assassino. A muovere i personaggi sono solo motivi egoistici. Lo faccio per i ragazzi, pensa il padre ad esempio, e sottotraccia corre una vena di violenza difficilmente sopportabile.
L'autore si sforza in tutti i modi di creare suspence, anche con la struttura notevolmente sofisticata (l'inizio, la fine circolare) ma in realtà la suspence non può esistere in una storia in cui non c'è spazio per una sorpresa, il giudizio è talmente netto che non lascia spazio a niente.
L'apoteosi finale è fatta apposta per una trasposizione cinematografica, completa della salita sul palco e del punto di vista dall'alto sul pubblico, ma dietro si intravede un'America spaventosa. Eviterò il troppo facile accostamento a Trump, ma certo che viene spontaneo.

In conclusione aggiungerò che è un romanzo molto ben scritto ma in certe parti lento, ripetitivo, soprattutto compiaciuto, sempre freddo, e malgrado sia formalmente (quasi) perfetto, non si riesce a crederci neanche per un momento. Ma soprattutto, e perciò ribadisco che questa non è una recensione, in sostanza l'argomento e il pensiero che ci sta dietro sono tremendi, e molte parti leggendole mi hanno fatto rivoltare le budella. 

Nella versione italiana la traduzione è di Federica Aceto.






giovedì 24 novembre 2016

Per amore di un topo: il primo racconto che ho pubblicato, giusto vent'anni fa




             PER AMORE DI UN TOPO

    Siete mai stati innamorati di un topo? Alla mia amica Carlotta è successo, me l'ha raccontato lei stessa. Carlotta è una donna non  più giovane ma molto attraente, dinamica, piena di interessi; insegna in un liceo, viaggia, è impegnata in un gruppo femminista, organizza corsi di aggiornamento per insegnanti e prima che questa storia cominciasse aveva una relazione con un nostro comune amico, simpatico e ragionevolmente innamorato di lei. L'altro protagonista di questa storia, invece, è un topolino di campagna, minuscolo, di colore  grigio chiaro e con una lunga coda sottile.
    Carlotta vive da sola, in collina, nella portineria di una villa settecentesca, ai margini di un parco una parte del quale, recintata, è il suo giardino privato. O meglio, credeva di vivere da sola. In una fredda sera dell'aprile scorso, mentre era seduta sul divano del suo salotto e guardava la televisione, scoprì che nella sua casetta c'era un altro inquilino. Un topolino grigio le saettò tra i piedi e con la velocità del lampo si infilò sotto un armadio.
    Carlotta dice che non fu un amore a prima vista. La sua prima reazione fu di disgusto e si manifestò con un femminilissimo strillo e un balzo sul divano. Per dieci minuti rimase paralizzata dall'orrore, abbracciandosi istericamente le ginocchia, finché il topo non sporse il muso di sotto all'armadio e i due rimasero a guardarsi fissi negli occhi per un po'. Gli occhi del topo erano piccoli ma lucidi e penetranti e Carlotta non riusciva a distoglierne i suoi. Dopo qualche minuto lei si fece coraggio e appoggiò i piedi a terra, lui venne allo scoperto, si piazzò sul tappeto, proprio di fronte ai piedi di Carlotta e squittì amichevolmente; l'amicizia era fatta.
    Secondo Carlotta, fin da quella prima sera la loro relazione ebbe un'insolita intensità. Lei rispose agli squittii dapprima emettendo suoni inarticolati, e poi con una gentile frase di benvenuto. Il topo avvolse la coda intorno al corpo e squittì di nuovo. Così gli approcci, che presero ben presto la forma di un corteggiamento, proseguirono, e alla fine della serata il topo riposava pacificamente in grembo a Carlotta, che ne carezzava il dorso sottile con due dita, piano, per non fargli male. Non so esattamente come sia finita la serata; ma certo fu l'inizio di una nuova fase nella vita della mia amica. So che fecero colazione insieme, la mattina dopo, Carlotta con caffè e fette biscottate, il topo con latte e pezzetti di biscotti.
    A me la cosa sembra repellente, ma Carlotta dice che da quel giorno cominciò per lei un periodo di grande felicità, l'esperimento di convivenza più riuscito della sua vita. Il topo dimostrò all'inizio una grande discrezione e rispetto per la sua autonomia. La salutava affettuosamente la mattina, quando lei usciva per andare al lavoro; la aspettava con ansia la sera, quando tornava stanca nel suo rifugio collinare, senza protestare se ritardava né chiederle che cosa aveva fatto durante il giorno; ma era sempre pronto ad ascoltarla se lei aveva voglia di raccontargli i fatti salienti della giornata. Secondo Carlotta, lui era in grado di capire qualunque cosa lei dicesse, e anche di esprimere pareri ed elargire consigli, il che mi sembra un po' eccessivo, ma va' a sapere.
    Così lei si legò sempre di più al suo coinquilino, cominciò a trascurare tutti gli impegni non strettamente obbligatori, come il gruppo femminista e i corsi di aggiornamento, e persino, dopo un po', Carlo, il suo compagno. Nel contempo, la relazione col topo cresceva e si faceva più completa. Fino a che punto sia giunta questa completezza, io non lo so. Non sono mai stata abbastanza in confidenza con Carlotta da potere sviscerare questo aspetto della questione. Penso però che l'intimità si sia spinta molto avanti: il loro era sicuramente un rapporto fisico oltre che affettivo, e molte delle cose che lei mi ha raccontato lo provano. Dato che era arrivata la stagione calda, lui aveva preso l'abitudine di scorrazzarle sulle braccia e sulle gambe nude; le mordicchiava le orecchie, le titillava il naso con la coda, le si infilava volentieri sotto le ascelle e con ogni probabilità anche in posti più reconditi, e questa gentile confidenza fisica le procurava un piacere intenso, insolito, così speciale che gli abbracci di Carlo (al quale aveva nascosto l'esistenza e la natura del rivale) le divennero fastidiosi e lei vi si sottrasse definitivamente.
    Intanto era giunta l'estate, e sia io che altri amici cominciammo a notare il progressivo isolarsi di Carlotta. Di solito, d'estate aveva l'abitudine di invitarci sovente a cena e a trascorrere la domenica nel suo giardino, ma quell'anno non lo fece neanche una volta. Io le telefonavo ogni tanto, ma lei era molto evasiva e lasciava cadere le proposte di vedersi. Un paio di volte la domenica pomeriggio mi recai da lei con un amico pensando di farle un'improvvisata, ma era talmente evidente che la nostra presenza le dava fastidio che ce ne andammo via dopo una mezz'ora e non ritornammo più.
    Mi disse in seguito che in quel periodo aveva provato a portare con sé il topo quando usciva, tenendolo in una tasca o nella borsa, ma lui non sopportava di starsene rinchiuso e compariva nei momenti meno adatti, mettendola in imbarazzo e seminando il panico tra i presenti, così alla fine decise che era meglio lasciarlo a casa e limitò le uscite allo stretto necessario per passare il maggior tempo possibile con lui. La scuola era finita e le giornate erano lunghe, dolci da trascorrere in giochi amorosi con il topolino nella casa fresca o sull'erba del giardino.
   
Il topo cambiò carattere. Carlotta dice che era sempre stato molto maschile nelle sue manifestazioni, fin dall'inizio; ma forse la novità dell'esperienza lo aveva reso più cauto e disponibile. Verso giugno la sua natura cominciò a manifestarsi con maggiore pienezza. Divenne prepotente e pieno di pretese. Si innervosiva se non trovava in tavola i suoi formaggi preferiti all'ora in cui gli garbava, era sempre più possessivo ed esigente nel pretendere l'attenzione totale di Carlotta e la sua presenza continua, e divenne anche meno fantasioso e premuroso nelle carezze. Dividevano il letto, lei sempre un po' in tensione per la paura di schiacciarlo inavvertitamente; lui cominciò a sparire per notti intere, e a ricomparire la mattina per colazione, di malumore, e senza dare spiegazioni.
    Questo non vuole dire che la loro relazione diventasse meno intensa o che Carlotta ne fosse meno presa: fu solo la manifestazione di un elemento di problematicità nei loro rapporti, come sempre succede dopo la prima fase di trasporto istintivo. Carlotta ne fu quasi lieta, era stato tutto troppo bello fino ad allora e questa nuova situazione le dava un maggior senso di realtà; era contenta di avere l'impressione di dover fare degli sforzi per costruire un rapporto duraturo con l'oggetto della sua passione.  
    Giunsero le vacanze, faceva caldo, a uno a uno tutti gli amici partivano, ma Carlotta non si mosse. A chi le telefonava per sapere che intenzioni avesse, disse che voleva restare in città perché aveva problemi economici, e comunque nessun luogo di villeggiatura poteva essere più piacevole del suo giardino collinare; di viaggiare quell'anno non aveva voglia. Nessuno si stupì più di tanto, e partimmo tutti tranquilli per le nostre mete. Carlotta rimase col topo.
    Alla fine di luglio si verificò un episodio terribile. Il topo scomparve per due giorni. Quando ricomparve, un pomeriggio verso il tramonto, la mia amica era ormai in uno stato di ansia isterica e lo accolse con una scenata memorabile, della quale ancora oggi si vergogna, ma lui chiese da mangiare, disse che era troppo stanco per discutere e se ne andò a dormire. La mattina dopo, mentre faceva pulizia in camera da letto, lei sentì degli squittii sommessi provenire dal guardaroba, spalancò con furia le ante e dietro a un mucchio di pantaloni invernali piegati e impilati scoprì un nido, fatto di cotone idrofilo e giornali rosicchiati, in cui stavano una topina e una dozzina di repellenti bestioline rosa carne, grosse come fagioli, cieche e prive di pelo, ma munite di una lunga coda che gli si attorcigliava intorno al corpo.
    Carlotta non ricorda che cosa fece dopo questa scoperta. Rimase come istupidita tutto il giorno e solo verso sera riuscì a ritrovare un po' di lucidità e quel tanto di senso dell'umorismo che le permise di vedere l'aspetto grottesco della vicenda. D'istinto decise che si sarebbe liberata di tutte quelle bestiacce e, sollevata, se ne andò in cucina a mangiare qualcosa.
    Sul tavolo l'aspettava il topo, con un'espressione buffa sul musino, mista di impazienza perché nel suo piattino non v'era ombra di cibo, contrizione e una sorta di malcelato orgoglio. Carlotta notò soprattutto i suoi baffi che pendevano pentiti e sentì che il cuore le si stringeva di tenerezza. Senza dire una parola tirò fuori dal frigo un po' di formaggio e cominciò a tagliarlo a pezzettini. Sentì una carezza che le percorreva il braccio e il collo, e crollò: seduta al tavolo di cucina, si mise a piangere e non smise fino a quando i baci del topolino non l'ebbero del tutto rassicurata. 
    Era ormai pieno agosto, tutti i negozi dei dintorni erano chiusi. Per fare la spesa, Carlotta doveva prendere la macchina e spingersi fino in centro, e anche così non riuscì a trovare una panetteria aperta; per quasi tutto il mese dovettero mangiare  pane in cassetta conservato, che non piaceva a nessuno dei due. In compenso, comprava grandi quantità di gelato e ogni due o tre ore ne metteva un po' in un piattino, intorno al quale si riuniva subito una piccola folla di topolini voraci e squittenti. La sera, all'ora di cena, il tavolo della cucina si copriva di animaletti nervosi e lei non aveva quasi il tempo di mangiare tanto era occupata a tagliare pezzetti di formaggio e distribuire latte e biscotti. Solo di notte, a letto, Carlotta e il topo riuscivano a ritrovare la giocosa intimità di un tempo; ma nel complesso, lei si adattò alla nuova situazione e non ne soffrì poi troppo.
    A settembre le scuole riaprivano, ma Carlotta non ritornò al lavoro. Non ebbe difficoltà a farsi dare un lungo periodo di mutua perché in effetti non stava niente bene: dormiva male, era molto dimagrita, soffriva di palpitazioni e di vertigini. Per di più, l'evento che si era verificato alla fine di luglio si ripeté e questa volta lei, che la prima volta aveva fatto tanti sforzi per capire e accettare, si sentì veramente tradita, ingannata, presa in giro e sfruttata dalla tribù di topolini che ormai avevano preso possesso della sua casa.
    Mi raccontò che quello era stato un periodo di abiezione. Per riconquistare l'attenzione del topo, si era umiliata fino a trascorrere ore rovistando sulle bancarelle di libri usati alla ricerca di volumi antichi dalla carta spessa e ingiallita, come sapeva che piacevano alla sterminata famigliola. Covava propositi suicidi e omicidi, leggeva con avidità tutte le pubblicità di veleno per topi che trovava sul giornale, le rare volte che si ricordava di comprarlo; batteva tutti i negozi di specialità gastronomiche della città alla ricerca dei formaggi più puzzolenti (ma lei li chiamava "odorosi") e dei più ricchi torroni. Ma ormai si rendeva conto che stava perdendo terreno nella competizione con la rivale, sempre più raramente il topo trascorreva la notte con lei, le sue carezze erano diventate distratte e frettolose e durante il giorno era troppo indaffarato con la prole per avere tempo di starla ad ascoltare e giocare con lei. Inoltre, sapeva di essere diventata lamentosa e opprimente, ma non riusciva a reagire.
    Fu proprio in quel periodo, verso la metà di settembre, che ricevetti una telefonata di Carlo. Era preoccupato perché aveva telefonato più volte a Carlotta ma lei si era sempre rifiutata di vederlo, gli era sembrata depressa e molto evasiva. Mi chiese se potevo andarla a trovare, dal momento che lui non osava farlo per paura di infastidirla o sembrare indiscreto. Io acconsentii, naturalmente, e un paio di giorni dopo mi ritrovai a suonare alla porticina del giardino di Carlotta.
   
Era un bel pomeriggio caldo e sereno, sui mattoni soleggiati del vecchio muro di cinta del parco scorrazzavano le lucertole. Attesi a lungo e stavo già per rinunciare e andarmene quando la porticina si aprì e mi trovai faccia a faccia con la mia amica.
    Fui impressionata dal suo aspetto. Era magra, sciatta, con una vecchia maglietta piena di buchi e, cosa che mi colpì più di tutto il resto, aveva i capelli sporchissimi, che le scendevano nel collo in ciocche unte e disordinate. Era evidente che la mia visita a sorpresa non le era per niente gradita, ma mi fece entrare e mi condusse nel giardino, con la scusa che la casa era troppo in disordine per ricevervi un ospite. Io cercai a mia volta di controllare l'espressione di stupore che sapevo di avere sul volto, e mi sedetti su di una sedia a sdraio. Le chiesi come aveva trascorso l'estate e lei mi rispose evasivamente. Fui ulteriormente colpita dal suo modo di parlare e di muoversi. Parlava a raffica, facendo continue smorfie con il naso e con il labbro superiore, muoveva la testa a piccoli scatti continui e teneva le braccia piegate lungo il busto con le mani pendenti dai polsi e le dita rattrappite come zampette. Io provai a raccontarle delle mie vacanze, ma era evidente che lei non mi seguiva, così alla fine mi decisi ad affrontare la questione direttamente e le chiesi che cosa le fosse successo, se non la potevo aiutare.
    "Aiutarmi!" esclamò lei ridendo forte. "Aiutarmi!" e scoppiò in lacrime.
    E così, un po' ridendo un po' piangendo, e un po' con la voce sognante di chi rivive ricordi dolcissimi, mi raccontò tutta la storia, tutto quello che era successo dalla prima sera d'aprile fino a quel giorno. Anch'io a dir la verità non sapevo se ridere o piangere, e contrariamente alle mie abitudini la ascoltai senza interromperla né fare domande. Solo quando finalmente tacque le chiesi che cosa avesse intenzione di fare adesso. Lei mi guardò sconsolatamente e aprì le mani in un gesto d'impotenza. Non sapendo che commenti fare, mi astenni dal dire alcunché; ma non potei trattenermi dall'esortarla a curarsi un po' di più.
    Lei abbassò il viso e ammise che si lavava poco perché il topo la preferiva così, soprattutto i capelli gli piacevano più sporchi che puliti, e lei era ormai disposta a usare tutti gli stratagemmi per ottenere ancora qualcuna di quelle carezze che lui non aveva più voglia di darle. Era calata la sera, il giardino si era fatto buio e l'umidità saliva dall'erba. Mi alzai per accomiatarmi; Carlotta mi fece promettere che non avrei detto a Carlo nulla di quello che lei mi aveva raccontato e che non le avrei più fatto visite a sorpresa.
    "Mi farò viva io quando avrò risolto questa faccenda" disse. 
    Tornai a casa piuttosto sconvolta. Quando Carlo mi telefonò per sapere com'era andata lo rassicurai come potevo, dicendogli che Carlotta aveva bisogno di rimanere sola perché stava vivendo un momento un po' particolare, ma si sentiva bene e avrebbe deciso lei stessa quando riprendere i contatti con gli amici. Mentre parlavo, mi rendevo conto che mai in vita mia avevo detto una così grossa bugia, ma non avevo scelta. Nei giorni seguenti, cercai di pensare a Carlotta il meno possibile, e vi riuscii, perché desideravo veramente di tutto cuore dimenticare quella storia assurda.
   
Passò altro tempo. Era ormai la fine di ottobre quando, un pomeriggio che stavo facendo commissioni in centro, mi sentii chiamare a gran voce e, voltandomi, mi trovai nuovamente faccia a faccia con Carlotta. Ma questa volta era di nuovo la Carlotta di un tempo, elegante, ben pettinata e con un sorriso allegro sulle labbra. Mi abbracciò con trasporto e mi invitò a prendere un aperitivo al bar. Ci sedemmo a un tavolino d'angolo e dopo qualche minuto di chiacchiere indifferenti le chiesi com'era andata a finire la faccenda del topo.
    "Tutto risolto" mi rispose alzando le spalle. "Ho chiamato un'impresa di derattizzazione e in due giorni mi hanno liberata da quel flagello."
    Parlava di nuovo in modo normale, senza smorfie né scatti della testa, ma mi parve che il suo sorriso fosse per un attimo un po' troppo volonteroso e tra le sopracciglia le si formarono due rughette verticali, come se stesse sforzandosi di trattenere le lacrime.
    Mi raccontò che aveva passato giornate a scopare via cadaveri di topi, ma per fortuna non aveva mai trovato quello del suo amore. Stupidamente le chiesi come avrebbe fatto a distinguerlo dagli altri: lei mi lanciò un'occhiata profondamente ferita. Capii di avere detto una grossa sciocchezza e non insistetti, ma il male era fatto e le lacrime cominciarono a scivolarle lentamente sulle guance ben truccate. Con voce sommessa mi disse che aveva passato un periodo tremendo, lacerata dai sensi di colpa e dai rimpianti, poi si era fatta forza e aveva ripreso a lavorare e vedere gente.
    "Ti inviterei volentieri a cena" disse alzandosi per andarsene "ma ho un impegno con Carlo."
    Mi sorrise di nuovo, ma il suo sorriso non era allegro.
    Tornai a casa a piedi, trascinando stancamente i pacchetti dei miei acquisti. Mangiucchiai qualcosa davanti alla televisione, ma non riuscivo a seguire quello che succedeva sullo schermo. Ero depressa. Per quanto assurda, innaturale e per me anche francamente disgustosa, quella di Carlotta era pur sempre una storia d'amore finita male, anzi tragicamente. Non avevo conosciuto il topo e non provavo nessuna compassione per lui, ma l'idea di Carlotta che raccoglieva a uno a uno i topolini morti con la paura di riconoscere quello con cui aveva diviso tanti momenti di felicità spensierata mi era insopportabile.
    Spensi la televisione e mi misi a bagnare le piante, anche se non era il giorno in cui lo facevo abitualmente. La calancoe era stanca, la felce egoista come sempre, ma il mio caro vecchio phalangium capì subito il mio stato d'animo e mi carezzò una spalla per incoraggiarmi. Lo tolsi dal davanzale della finestra e lo portai sul divano accanto a me. Piansi per qualche minuto, poi cominciai a raccontargli tutta la storia di Carlotta e del topo, contenta di vedere che seguiva con interesse e comprensione, senza dare giudizi e neppure ridere per l'assurdità della vicenda. Parlare con lui mi aiutò molto: alla fine ero sollevata, anche se continuavo a sentire una grande malinconia, come una spina proprio in fondo al cuore. Decisi che quella non era la sera giusta per andare a dormire da sola, mi portai il phalangium in camera e lo misi sulla mensola dietro al letto, di modo che le sue belle foglie sfiorassero il cuscino.
    Fu una notte lunga e inquieta, mi svegliai decine di volte ma ogni volta il tocco gentile del phalangium mi rasserenava e mi dava la certezza che non ero sola, che una presenza amica vegliava accanto a me e non mi avrebbe abbandonata. Verso l'alba riuscii ad addormentarmi stringendo una foglia tra le mani; e dormii senza sogni fino alla mattina dopo. 

Pubblicato su Tuttestorie, nuova serie, aprile 1996