lunedì 25 luglio 2016

La tragedia dei Greci del Ponto, una vicenda poco nota: Maria Tatsos, La ragazza del Mar Nero

Il monastero di Sumela
La ragazza del Mar Nero prova a raccontare un episodio pochissimo conosciuto, ossia la deportazione e la distruzione della comunità dei greci del Ponto, avvenuta tra il 1916 e il 1923, quando tutti i greci dell'Asia Minore furono costretti a lasciare quella che era la loro patria da migliaia di anni. Il cosiddetto "scambio di popolazione" fu un'immane tragedia, di cui la vicenda dei greci del Ponto è una parte. Per saperne di più, oltre ai link precedenti, si possono leggere molti bei romanzi, ad esempio Yasar Kemal, Guarda l'Eufrate rosso di sangue Anatolia addio di Didò Sotiriu.

Maria Tatsos, cito dal risvolto di copertina, è giornalista professionista,
laureata in Scienze Politiche e diplomata in Lingua e Cultura Giapponese presso l'Isiao di Milano. Attualmente lavora come freelance per vari periodici femminili, collabora con il Museo Popoli e Culture del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e con il Centro di Cultura Italia-Asia. Tiene corsi di scrittura autobiografica ed è autrice di alcuni libri, che spaziano dai diritti dei consumatori alle religioni asiatiche. In questo libro vuole raccontare la storia della sua famiglia, originaria di Ordu (Kotyora in greco) sul Mar Nero, nella regione del Ponto.

La zona di cui si parla, che si affaccia sul Mar Nero più o meno da Sinope (patria di Diogene) al confine con la Georgia, comprende località di grandissimo interesse come Trebisonda, Samsun, Rize (di cui è originaria la famiglia di Recep Tayyip Erdoğan), Amasya (che diede i natali a Strabone), Tocat (dove Giulio Cesare pronunciò la frase famosa Veni, vidi, vici), oltre al meraviglioso monastero di Sumela e altre. Era abitata da comunità armene e greche di cui si vedono le tracce sia negli edifici di culto che privati. Un esempio è, a Trebisonda, che fu capitale dell'impero dei Comneni dal 1204 al 1461, la bellissima basilica di Santa Sofia, ora museo, e nel passato usata come deposito di munizioni e ospedale militare per i feriti della guerra di Crimea, poi moschea. Vi si sentiva la vicinanza della Russia, cui i greci guardavano come una possibile protettrice in quanto cristiana, e come luogo in cui emigrare alla ricerca di miglioramenti economici. Sempre a Trebisonda, l'attuale Museo di Trabzon è ospitato in un edificio costruito nel 1912 per un mercante russo e decorato da artigiani italiani, il cui sfarzo e eleganza fanno capire quanto ricca e cosmopolita fosse la città. La regione è ricchissima anche di tradizioni legate al mito: basti dire che vi abitavano le Amazzoni e da un promontorio vicino a Ordu, Giasone e gli Argonauti partirono per la Colchide alla conquista del vello d'oro. Ma la mia storia preferita è che alle spalle di Trebisonda si trova il Monte Teche - quello da cui i superstiti dei Diecimila di Senofonte gridarono Thalassa! Thalassa! vedendo le azzurre acque del Mar Nero, che volevano dire basta marce forzate e un comodo ritorno in Grecia via nave. 

La famiglia paterna di Maria Tatsos, e in particolare i suoi nonni, visse tutta la tragedia delle successive deportazioni e decimazioni della popolazione greca che si conclusero con l'esilio definitivo dei pochi superstiti, stabilendosi infine a Ghiannitsa in Macedonia. Tra i sopravvissuti vigeva una sorta di rimozione delle sofferenze patite, e in casa non se ne parlava; ma l'autrice, di padre italiano e madre greca e sempre vissuta in Italia, a un certo punto decide di ricostruire le vicende di sua nonna Eratò facendo ricorso alle pochissime memorie familiari, con l'aiuto di parenti e ricerche condotte sia a Ghiannitsa che a Salonicco. Descrive la vita serena e operosa della comunità fino alla catastrofe, che segue di poco quella degli armeni, e si sviluppa di concerto alla disgregazione dell'impero ottomano, alle vicende della Prima Guerra Mondiale e alla tragica storia della Megali idea (trasformatasi in Megali catastrofì) di Venizelos che voleva conquistare Ankara, il conseguente "scambio di popolazione" e lo strascico di terribili sofferenze che ne derivò.
Maria Tatsos

Quello che manca in questo libro è sia il pathos romanzesco che sappia comunicare con i lettori coinvolgendoli nelle sofferenze dei pallidi personaggi, sia uno sguardo più ampio sulla storia: è vero che qui si parla del Ponto, ma è vero anche che la tragedia dei greci in Turchia è molto più vasta. Se non si conosce un po' la storia di quell'epoca, leggendo La ragazza del Mar Nero si crederà che in Turchia quella del Ponto fosse l'unica comunità greca. L'autrice è una narratrice piuttosto modesta che non sa decidersi tra il romanzo e la ricostruzione storica, ma se non ci si aspetta troppo (anche a livello storico) il libro è di piacevole lettura e dà una massa di informazioni spicciole. Un'interessante bibliografia completa il volume, che di certo può essere un ottimo punto di partenza per approfondire l'argomento.


giovedì 21 luglio 2016

Centosessant'anni e sembra oggi... La burocrazia in Italia nel 1856 secondo Wilkie Collins

Una breve citazione da La follia dei Monkton (1856) di Wilkie Collins, breve romanzo o lunga novella in cui si racconta tra l'altro della traslazione di un cadavere dall'Italia all'Inghilterra: Con l'arrivo del giorno venne anche l'impegnativo compito di avviare le pratiche con le autorità. Solo coloro che hanno avuto a che fare con funzionari italiani possono immaginare come la nostra pazienza fosse messa a dura prova da tutti coloro con i quali venimmo a contatto. Fummo scaricati da un'autorità all'altra, fummo fissati, interrogati, fraintesi, non perché il caso presentasse particolari difficoltà o complicazioni, ma perché era assolutamente necessario che ogni funzionario civile al quale ci rivolgevamo affermasse la sua importanza trattando i nostri affari nella maniera più cervellotica possibile. [...] Qui sopravvennero ancora altre difficoltà, e si dovettero soddisfare altre inutili formalità, ma alla fine la pazienza, la perseveranza, ed il denaro trionfarono, e due uomini vennero apposta da Roma per svolgere i compiti che chiedevamo loro.
Per il resto, si tratta di una storia che fa un po' di fatica a decollare, ma poi acchiappa e diverte come le altre cose che ho letto di Wilkie Collins, anche se qui si tratta in fondo solo di una storia di follia, sia pure molto gotica. La bella traduzione e la nota finale sono di Franco Basso.

mercoledì 20 luglio 2016

Una scoperta folgorante: Lucia Berlin, La donna che scriveva racconti

Bella come un'attrice di Hollywood, maledetta come la protagonista di un romanzo beat, con un occhio acuto e attento a tutto, e soprattutto mostruosamente brava a scrivere racconti: Lucia Berlin mi ha veramente folgorata. Non fatevi scoraggiare dal brutto titolo (molto, molto meglio quello originale: A Manual for Cleaning Women: Selected Stories) e affidatevi alla voce che accumula storie su storie anche se non amate i racconti. Lucia Berlin trae il materiale con cui costruisce personaggi, luoghi e vicende dalla sua vita, manipolandola e riutilizzandola, spezzettandola o condensandola, ma sempre trasformandola in qualcosa di irresistibile che costringe a leggere ogni pagina con la speranza che dopo ce ne siano ancora molte altre. In realtà alla fine si tratta quasi di un romanzo, i personaggi ritornano da una storia all'altra, i luoghi pure, e poi c'è sempre lei, l'alcolizzata, la donna delle pulizie, la madre di quattro figli, la donna sola che ha avuto tre mariti, l'insegnante, la bambina con la scoliosi, la malata che vive attaccata alla bombola dell'ossigeno, e mille altre incarnazioni. Figlia di un ingegnere minerario e di una madre tremendissima, con una sorella minore riscoperta solo quando sta per morire di cancro, nasce in Alaska e vive in Cile, in Texas, in California, nel Colorado e dio solo sa in quanti altri posti.

A Manual for Cleaning Women: Selected Stories è uscito negli USA nel 2015, undici anni dopo la morte di Lucia Berlin, ma le ha dato finalmente quella fama che non ha mai raggiunto in vita: chissà che storia caustica e spietata ne avrebbe tratto l'autrice. Il suo nome viene accostato a quello di Raymond Carver, Alice Munro, Don Delillo, William Carlos Williams, Grace Paley. Nulla so di Williams né di Paley, invece Carver, Munro e Delillo non mi piacciono, e non riesco a ricordare che cosa mi abbia spinto a comprare questo libro. Qualche osservazione letta qua o là, e il titolo originale di sicuro. Be', per una volta ho scelto benissimo.

La raccolta è molto corposa (quarantatré racconti) e naturalmente ce ne sono di quelli che ho amato di più altri meno, ma tutti sono veloci, efficaci, divertenti anche se parlano di argomenti pesanti o tragici. Ritrattini fulminanti come il piastrellista di Io e B.F. o l'indiano di La lavanderia a gettoni di Angel, il tremendo nonno di Il dottor H.A. Moynihan (di cui si riparla anche in altri racconti), Ruth la bugiarda compulsiva di Una relazione, l'ex marito chiacchierone di Ci vediamo, gli allegri ubriaconi di Wong, ma anche le storie struggenti come Mijito, la solitudine infantile di Silenzio, la scuola di scrittura in carcere (in cui l'autrice compare in un cameo davvero eccezionale) di Qui è sabato, e ovviamente l'esilarante Manuale per donne delle pulizie. Insomma non li posso ricordare tutti e quarantré, ma ognuno meriterebbe una citazione speciale.

Ma su tutto prevale la voce di Lucia Berlin, affabile, priva di artifizi e pathos eccessivi, senza pudore ma sempre interessata al dato umano, mai alla ricerca di stupire o di sferrare colpi bassi al lettore. Un po' come quando in treno ci si siede vicino una di quelle donne che hanno voglia di raccontarci la loro vita, e vanno avanti chilometro dopo chilometro a macinare parole, segreti e storie stupefacenti. Con la differenza che queste vicine di scomparimento sono in genere noiosissime, mentre invece di Lucia Berlin non ci si stanca mai, si vorrebbe che continuasse con le sue storie di alcolizzati e sballoni ancora e ancora, fino alla stazione d'arrivo.    
La bella traduzione è di Federica Aceto.

sabato 9 luglio 2016

Una bella recensione di Margherita Giacobino a "Gli anni al sole"



 Ecco la bella recensione che Margherita Giacobino ha scritto a proposito di Gli anni al sole, uscita sul numero 172 di Leggere Donna, luglio-agosto-settembre 2016

GLI ANNI AL SOLE

L’ultimo romanzo di Consolata Lanza, Gli anni al sole, ha il profumo del mare dei fiori e delle spezie ed è un viaggio dell’immaginazione e dei sensi nel passato di quell’angolo del Mediterraneo che è l’isola di Chios, a ridosso della costa turca. La storia si svolge nella seconda metà dell’Ottocento e ha per protagonista Alain, un giovane francese che le vicende familiari hanno reso precocemente adulto e responsabile; chiamato al capezzale della madre morente, riceve da lei una lettera da consegnare a una misteriosa sconosciuta, di cui si mette alla ricerca.
            
             Comincia così una vicenda che ci condurrà da Parigi a Londra a Chios, e che vedrà Alain cimentarsi con i temi eterni dell’amore, l’amicizia, il sesso, il potere, il lavoro, la responsabilità, attraverso una serie di incontri, di avventure e di enigmi. Un po’ romanzo di formazione un po’ feuilleton, per riprendere la definizione stessa dell’autrice, ma entrambe le forme rivisitate con un linguaggio attualissimo, con una mano felice e lieve che gioca con i topoi letterari volgendoli a esiti tutt’altro che scontati, e soprattutto con l’originalità di sguardo e la nitidezza di stile che sono le cifre di Consolata Lanza.
             
             Grande viaggiatrice, Lanza ci porta con sé nel passato di un luogo amato, Chios appunto, e nella sua storia reale a cui si intrecciano le vicende immaginarie dei personaggi. Il viaggio, nello spazio e nel tempo, è il primo nucleo ed elemento fondante del romanzo, ne percorre tutta la trama ed è presente in ogni pagina: viaggio dalla fredda Europa del nord verso il sole del Mediterraneo, alla scoperta di luoghi, lingue, costumi diversi, e di sé attraverso il contatto con queste diversità. Viaggio come esperienza sensoriale, immersione nei rumori, colori, odori dell’isola con le sue cittadine, le case dei ricchi mercanti, le fertili campagne fiorite, le feste, i canti, i balli, il cibo, il vino. Viaggio dalla gioventù alla maturità, passando per gli incontri e per la solitudine, per la terra e per il mare. Viaggio come cifra principale della narrazione: nella prosa di Lanza tutto ha la freschezza del taccuino di un viaggiatore incantato, in cui grandi trame e piccoli episodi si accostano, e soltanto dopo sapremo metterli in prospettiva; e non sappiamo mai, noi lettori che seguiamo il protagonista nel suo cammino, cosa ci aspetta dietro l’angolo, se il profumo del gelsomino, una visione fuggente di bellezza, o un imprevisto pericolo.
             
                Il secondo grande nucleo, e materia viva del romanzo, sono le donne. Attorno ad Alain si muovono presenze femminili molteplici ed esigenti: le sue sorelle lontane, per le quali prova affetto e nostalgia, e un senso di responsabilità dal cui peso a volte si sente sopraffatto; le tre sorelle Kalojannis, figlie di un ricco mercante di Chios, che lo affascinano con le loro personalità e lo coinvolgono nelle loro trame; l’accogliente prostituta Sula, tra le cui braccia trova rifugio, e infine la bella olandese Saskia, che lo ricondurrà verso il Nord. Donne come mistero: sono loro la fonte principale di tutti gli enigmi in cui Alain si imbatte; e donne come turbativa del limpido mondo maschile. La vita delle donne si svolge, nel Sud ancor più che nel Nord, in modo nascosto e marginale, il loro carattere, per quanto forte, deve piegarsi alle convenzioni o almeno fingere di farlo, quindi il loro potere non può agire se non tramite l’inganno, la finzione o la manipolazione.                    
             Donne come avventura, corpo indocile che sfugge alla legge del padre, sussulto di libertà che introduce l’imprevisto. Così, di sghembo, attraverso lo sguardo di Alain, i desideri le trame e le trasgressioni delle donne balzano in primo piano e diventano motore dell’azione:
            ‘Donne, donne, donne! Non ne potevo più di quei loro corpi indocili e fecondi, della loro capacità di scompigliare le carte all’ultimo momento. Non volevo più essere sorpreso da nessuna donna. E possibilmente neanche essere coinvolto nei loro torbidi misteri… Portatrici di disordine perpetuo, incidenti nel luminoso mondo degli uomini.’
             
             E poi c’è la gioventù. Tutti i personaggi principali sono giovani, impegnati in un loro travagliata ricerca di libertà e di felicità. Gioventù come baldanza, fisicità che si fa palpabile: il corpo giovane e sano di Alain e quelli imperiosi e desideranti delle donne che lo circondano ben si accordano con i colori accesi dello sfondo su cui si muovono. La gioventù diventa materia di scrittura nella continua evocazione della bellezza e sensualità dei luoghi e nell’intensità delle esperienze sensoriali: l’energia del protagonista, la sua fame felicemente placata e felicemente risorgente, la curiosità e la noia, la pienezza e la nostalgia.
            Viaggio, donne e gioventù si intrecciano in un racconto fitto di imprevisti e di enigmi. Che trovano la loro soluzione a tempo debito, ovvero quando noi lettori, incalzati dalla trama e avvolti negli incantesimi di un Mediterraneo che è già quasi oriente, ce li eravamo quasi dimenticati. E tutto finisce con un colpo di scena magistrale, un calar di sipario che la storia fornisce alla narratrice, e che naturalmente non si può svelare.
             
             Uscire da sé, farsi trasportare in mondi lontani, sono richieste che da sempre i lettori rivolgono ai libri; Gli anni al sole le soddisfa felicemente fino all’ultima pagina. Anche noi, come Alain e tramite lui, respiriamo l’aria carica di fragranze e di odori, vibrante di suoni, sferzata dal vento e impregnata di salsedine. E insieme a lui camminiamo ‘con la bocca spalancata, come per inghiottire ogni briciola che quella favolosa terra mi offriva generosamente.’


Margherita Giacobino


Consolata Lanza, Gli anni al sole, Buckfast Edizioni, Torino 2016 - pagg. 248 € 16,00




           

mercoledì 6 luglio 2016

Solo per entusiasti e appassionati, un giallo che più nordico non si può: Le notti di Reykjavík di Indriðason Arnaldur

Le notti di Reykjavík è un libro di Indriðason Arnaldur, autore islandese di cui ho già parlato su queste pagine per cui non mi dilungherò. Giusto la moda perdurante (ma forse siamo al fondo del barile?) dei gialli scandinavi (e l'offerta lampo Kindle che mi ha indotto a comprarlo) può giustificare la lettura di questo romanzo, in cui si narrano gli esordi dell'ispettore Erlendur Sveinsson, che qui ha ventisette anni, sta alla stradale e ha appena concepito il primo figlio, o figlia che sia. Siamo nel 1976 (ma il romanzo è uscito in Islanda nel 2012), e questo fa sì che l'inchiesta sia tutta fatta solo di colloqui e scarpinate. 

Erlendur si trova casualmente a assistere alla scoperta del cadavere di un senzatetto annegato in una palude. L'aveva incontrato molte volte in vita, e qualcosa non lo convince nella sbrigativa definizione di incidente. Testone e cortese, si mette a scavare nella vita del barbone, tra le sue conoscenze e parentele, e intanto coltiva anche la sua curiosità per i casi di sparizione mai risolti. Ben presto i due filoni si intrecciano, e intanto la sua vita privata si sviluppa con una mancanza di entusiasmo che fa un po' senso. Alla fine la soluzione non arriva proprio inaspettata, dopo che siamo stati edotti anche su molti casi di risse, violenze domestiche, furti regolarmente sventati, funzionamento dei rifugi per senzatetto e similia; e Erlendur riceve la giusta ricompensa per la sua testarda ricerca della verità. Confesso che non mi è rimasta l'impressione che le notti di Reykjavík siano proprio eccitanti. L'idea che mi è piaciuta di più è che un barbone può chiedere ospitalità alla centrale di polizia, e se ci sono celle libere lo accolgono a braccia aperte. Ma l'insieme, vi avviso, è appassionante come un rosario e appetitoso come un petto di pollo avanzato. 
Traduzione di Alessandro Storti.